A thing of beauty is a joy forever

"Ecco, immaginiamo non un ritiro per scrittori, ma un ritiro per tennisti. Senza tutto quel dolore che i protagonisti del romanzo di Palahniuk si autoinfliggono. Noi non vogliamo che i nostri tennisti si facciano del male, no, no. Vogliamo però sapere tutto di loro. D’altra parte è così che vanno le cose. Siamo curiosi, vogliamo sapere, entrare nelle loro vite, capire".

di Benedetta Ruggeri

Chuck Palahniuk è uno che si ama o si odia. Non ci sono mezze misure. Nel suo romanzo del 2005 Cavie (Haunted il titolo originale, che letteralmente significa perseguitati) lo scrittore americano ci presenta un gruppo di uomini e donne che hanno deciso di partecipare a un ritiro per scrittori, rispondendo ad un annuncio che recitava Ritiro segreto per scrittori – abbandona la tua vita per tre mesi – vivi la vita che hai sempre sognato postato sulla bacheca di un cafè in Oregon.
Il gruppo, seguendo le istruzioni dell’annuncio, fa la conoscenza del signor Whittier, organizzatore dell’evento. Whittier dice loro di aspettare un autobus che verrà a prenderli la mattina successiva e li avvisa di portare solo ciò che può trovare spazio in una valigia.

Il giorno successivo, il gruppo, Whittier, e la sua assistente, la signora Clark, si dirigono verso un teatro abbandonato. Whittier blocca tutti all’interno del teatro, dicendo loro che hanno tre mesi per scrivere ognuno la sua opera prima che lui possa consentire loro di tornare alle proprie vite. Nel frattempo, assicura l’uomo, avranno abbastanza cibo e acqua per sopravvivere, così come calore, elettricità, camere da letto, bagni e una lavatrice. Insomma, si trattava solo di scrivere. Di divertirsi, fra una pagina e l’altra. Di dare sfogo alle proprie parole. O, come avrebbe detto una di loro, di dare voce al risentimento.

Un semplice ritiro per scrittori, niente di più. Un ritiro simile a quello che dovevano avere sperimentato John Polidori, Lord Byron, Percy Bysshe Shelley e sua moglie Mary nella bellissima Villa Diodati nell’estate del 1816, tre giorni in cui gli artisti avevano passato il loro tempo a inventare e raccontarsi l’un l’altro storie (riprendendo forse non tanto casualmente le vicende del gruppo di dieci ragazzi narratori del Decameron di Boccaccio) e che, fra le altre cose, sembra esser stato il luogo di concepimento del capolavoro di Mary Shelley, ovvero Frankenstein.

Tutto va bene, in un primo momento. Ma il signor Whittier sembra avere un’idea diversa rispetto a quella professata dal suo invito. Decide di osservare come il gruppo si autodistrugge, nella convinzione che si potrebbe diventare famosi sfruttando il fatto che il malvagio Whittier li avesse chiusi all’interno del teatro senza alcuna possibilità di contatto con il mondo esterno. Il gruppo si inventa un antagonista, un demonio, qualcuno che avrebbe causato un dramma, quello stesso dramma che li avrebbe ricoperti di soldi una volta usciti da quel luogo. I protagonisti iniziano a sabotare la loro stessa sopravvivenza, con l’unico scopo di aumentare il dramma del loro soggiorno che avrebbe dovuto apparire, agli occhi del pubblico, forzato. I personaggi costringono così sé stessi a lottare per sopravvivere a fame, freddo e tenebre. Perché è questo che l’uomo ama. Il dramma, il conflitto. Abbiamo bisogno di un demone, o ce ne creeremo uno. Non c’è niente di male in tutto questo, ci dice Palahniuk. È solo il modo in cui sono fatti gli esseri umani.

Ecco, immaginiamo non un ritiro per scrittori, ma un ritiro per tennisti. Senza tutto quel dolore che i protagonisti del romanzo di Palahniuk si autoinfliggono. Noi non vogliamo che i nostri tennisti si facciano del male, no, no. Vogliamo però sapere tutto di loro. D’altra parte è così che vanno le cose. Siamo curiosi, vogliamo sapere, entrare nelle loro vite, capire. Alzi la mano chi non ha mai spulciato il loro profilo twitter. O il loro profilo instagram. O facebook. Per sapere cosa hanno mangiato a colazione. Per sapere con chi sono usciti l’altra sera. Per sapere chi è l’ultimo fidanzato di chi. Oddio, ma hai visto che quella non segue più quell’altra su twitter? Hai visto l’ultimo servizio fotografico? A me sembrava mica che ce l’avesse così il naso. No, di sicuro è photoshop. O magari qualcos’altro. Chissà. E questo? Hai sentito che ora flirta con questa su twitter? Ma non era sposato? E giudichiamo, e giudichiamo, e giudichiamo. Come direbbe il buon vecchio Chuck, l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo. Sono loro. Siamo noi. Noi come una specie di Grande fratello. Noi, una specie di signor Whittier. Li invitiamo al nostro ritiro. Ritiro segreto per tennisti. Non tanto segreto, perché in realtà ci saranno milioni di appassionati ad osservarli, anche se loro non lo sanno. O forse sì.

E si ritrovano a sedere in cerchio al centro di un campo da tennis. Un campo in erba, magari. Ma non è all’aperto, sarebbe troppo facile. Troppo poco Palahnukiano. E l’occhio che tutto vede, il Grande fratello, Noi siamo in attesa che qualcuno di loro, chiunque, inizi a parlare. Che ci dica qualcosa. Magari che ci racconti che cosa ha mangiato a cena ieri. Basta che parli. Che soddisfi la nostra fame di sapere. L’obiettivo che sta dietro l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo. Qualcuno si alza. Ci pare sia una donna. Zoom su di lei. Sì, è Marion. Marion con il suo Q. I. di 175. Voglio dire, un Q. I. più alto di quello di Albert Einstein.
Marion inizia. Guarda i suoi compagni e dice: “Se nessuno è contrario, inizierei un discorso sulla bellezza”. Ovviamente sono tutti contrari. Ma è lei a decidere. Un discorso sulla bellezza. Dice Marion: “La bellezza è una combinazione di qualità che danno piacere ai sensi. L’essere umano possiede l’istinto innato di apprezzare la bellezza, in qualunque forma si presenti. Un oggetto bellissimo riempie il cuore di gioia e piacere. L’anima si agita alla vista esterna della bellezza.” 175 di Q.I. Marion, presa in giro per i suoi chili di troppo. Marion, che secondo alcuni non è di certo una modella. Come se una tennista avesse bisogno di sembrarlo.

Marion, che secondo molti a tennis proprio non ci sa giocare. Tutte sentenze sputate fuori da chi di certo non ha un trofeo di Wimbledon come centrotavola. Marion dice: “Cosa rispondereste se qualcuno vi chiedesse di dare una definizione della bellezza in relazione al tennis?”. Qualcuno dice: “Ci risiamo.” Qualcun altro dice: “Il mio rovescio. Se non è sinonimo di bellezza questo, non so cosa possa esserlo. A dire il vero, tutto ciò che faccio sul campo, è sinonimo di bellezza.” Oddio, che noia, Roger. Ma chi te l’ha scritto il copione, i tuoi fan? Noi vogliamo qualcosa di più. Il Grande fratello vuole qualcosa di più. C’è una ragazzina che alza timidamente la mano.
Dice di essere americana e avere 19 anni. Tutti si girano a guardarla. Victoria dice: “Quando ho battuto Samantha a casa mia, è stato bello. Avere tutti gli occhi addosso durante quell’ultimo punto è stato bello. Saltare per la felicità è stato bello. La gente che scandiva il mio nome tra gli applausi è stato bello. È stato ancora più bello sconfiggere quell’altro avversario, un anno dopo. Quello è stato proprio bello. Forse più bello. Bellissimo.” Noi, il Grande fratello, il signor Whittier, continuiamo a guardare. E ad ascoltare. “Io nemmeno pensavo che avrei potuto giocarci, a tennis” dice una voce. “Quando a 13 anni mi operarono al cuore non pensavo che avrei ripreso una racchetta in mano. Però l’ho fatto e sono diventata numero uno del mondo” dice Shuai. “È abbastanza bello?” Sì, sì, facciamo noi da dietro la nostra telecamera.

Ci piace. “È stato bello quando ho battuto Serena” dice Maria. Battuta stavolta scritta dai fan di Serena, il Grande fratello suppone. “È stato bello quando ho battuto te”, le fa Alla. Beh, sì, commenta il Grande fratello. Il signor Whittier. Noi. È stato proprio bello. Qualche secondo di silenzio, ed ecco che alza la mano qualcuno che chiede gentilmente di poter parlare. Zoom. “Io con te ci ho perso. Ma è stato bello lo stesso. È stato bello perché ho sorpreso tutti, e anche prima degli altri me stessa. È stato bello perché mi sono spinta al limite. È stato bello perché non ho avuto paura.” E Alexandra sorride. E Noi, il Grande fratello, il signor Whittier, sorridiamo anche noi. Solo che lei non ci può vedere. Anche se noi lo vorremmo. L’obiettivo che sta dietro l’obiettivo che sta dietro l’obiettivo. Come non ci può vedere Victor, che dice “Ho dovuto aspettare vent’anni per potermi rotolare sulla terra come un bambino… È stato bello.” Lo è stato, senza dubbio. Rafael ci dice che è stato bello tornare a vincere un torneo dopo nove mesi, e piangere seduto sulla panchina come un bambino, pure lui. Poi “È stato bello sorprendere un miliardo di persone. È stato bello far sì che questo miliardo di persone si sentisse il centro del mondo, anche solo per trenta secondi, e non soltanto perché Zhongguo questo vuol dire, il centro del mondo.

Quei trenta secondi in cui quel miliardo di persone ha potuto ascoltare il suo inno ed esserne orgoglioso, soltanto grazie a me. Ma è stato bello anche due anni dopo, quando avevo in mano il sogno e sono caduta. Una, due volte. E con me è caduto pure lui. Però poi mi sono rialzata. Rialzarsi dopo essere caduti, ritornare, riprendere da dove si è lasciato. Piangere, ma essere decisi a tornare ancora più forti. Questo è stato bello” dice Na. E a Noi, il Grande fratello, il signor Whittier, serve un fazzoletto. Anche perché, da dietro la nostra telecamera, vediamo una ragazzona alzarsi e andare ad abbracciare la piccola Victoria. Zoom su di lei. È Alisa. Dice Alisa: “Non so cosa altro dire” e a noi va bene lo stesso. Perché è questo che volevamo in realtà. Noi volevamo emozioni.

Il Grande fratello, il signor Whittier, stavolta non voleva drammi. Voleva emozioni, vere. Voleva il momento. Il momento vero, unico, quello che ti lascia senza parole. Da quanto è felice. Da quanto è frustrante. Da quanto è triste. Da quanto è vero. E più è vero, più è bello.
Ha avuto ragione Marion a tirare fuori tutto questo discorso sulla bellezza. Perché bellezza non è solo un gesto tecnico, per quanto perfetto possa essere. Bellezza è il momento in cui realizzi che sei riuscito ad alzare al cielo un trofeo quando quasi non ci speravi più, e sai che sei stato il primo nella Rep. Dominicana a poterlo dire. Bellezza è quando capisci di aver reso orgogliosa una nazione intera, e la porti sulle tue spalle, e sei la prima tennista cinese a portare sul campo centrale, a Parigi, l’inno della tua terra. Bellezza è quando sconfiggi un avversario più grande di te, sia che sei una diciannovenne americana o una venticinquenne di Mosca. Bellezza è quando sei una ragazza russa che è stata ad un passo dallo sconfiggere la numero 2 del mondo, stai per uscire dal campo dopo una battaglia di più di due ore, che sì hai perso ma in cui hai dato tutto, e in risposta il pubblico si alza in piedi e ti applaude mentre tu cerchi di trattenere le lacrime, perché quegli applausi te li sei meritati. Eccome se te li sei meritati. Bellezza è il momento, nient’altro che il momento. Ma il momento, il momento del bello può essere vissuto e rivissuto centinaia, migliaia di volte, senza cessare di essere tale. Senza smettere per un secondo di essere bello.

Noi, il Grande fratello, il signor Whittier, decidiamo che va bene così. Accendiamo le luci, apriamo le porte. Loro possono andare. Sono liberi. Nessun dramma, come nel romanzo del buon Chuck. Loro torneranno alle loro vite, noi alle nostre, ma con qualcosa in più. Ora sappiamo che sono umani, proprio come noi. Ed è così che devono essere visti. Noi li ringraziamo perché ci hanno insegnato qualcosa. Mentre riavvolgiamo il nastro e li ascoltiamo parlare di nuovo, ci viene in mente che a Villa Diodati, in quell’estate del 1816, mancava il buon John. John Keats, il poeta romantico che ci ha lasciato in una semplice frase la verità più assoluta riguardo la bellezza. A thing of beauty is a joy forever. Una cosa bella è una gioia per sempre.

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