Round Robin, una formula da abolire?

A Singapore, ancora una volta, la formula del Round Robin ha mostrato i suoi difetti. Simona Halep domani affronterà Serena Williams, conscia del fatto che avrebbe potuto essere 'artefice' della sua eliminazione, se non avesse vinto un set contro Ana Ivanovic. E' davvero possibile che in uno sport qualificazioni dei giocatori possano essere decisi da freddi calcoli di set e game? Esistono altre soluzioni?

Giunti agli sgoccioli dei Wta Championships di Singapore, possiamo trarre qualche considerazione su questa settimana, rocambolesca e piena di colpi di scena. Serena Williams, come da pronostico, è arrivata fino in finale, ma ha rischiato seriamente l’eliminazione a causa della clamorosa batosta contro Simona Halep, per 6-0 6-2, la sconfitta peggiore degli ultimi 16 anni. La n. 1 del mondo però si è salvata, a spese della Ivanovic e proprio ‘grazie’ alla rumena (tra poco spieghiamo perché), e oggi ha battuto Caroline Wozniacki al termine di un match lungo e lottato. Dall’altro canto, la rumena Halep ha liquidato senza problemi Agnieszka Radwanska, qualificata in semifinale pur avendo raggiunto una sola vittoria. Ancora una volta questo torneo ha mostrato alcuni evidenti limiti della formula del Round Robin. Vediamo più in dettaglio.

Iniziamo parlando del tortuoso percorso di Serena Williams. La n. 1 al mondo, dopo il successo agli Us Open, aveva passato un brutto periodo costellato da infortuni, che l’avevano costretta al ritiro nei tornei asiatici di Wuhan e Pechino. Fino all’ultimo era stata a lungo incerta se venire o meno a Singapore. Nel Round Robin, malgrado la batosta contro la Halep, se l’è cavata bene contro Ana Ivanovic e Eugénie Bouchard, battute entrambe in due set. La qualificazione al Masters è stata comunque a rischio sino all’ultimo. La Ivanovic, infatti, vincendo in due set contro Simona Halep, avrebbe superato Serena nel bilancio dei set fatti e subiti a parità di vittorie e sarebbe stata lei la seconda semifinalista del girone.

Ieri, alla vigilia e durante il match tra Halep e Ivanovic molti appassionati hanno creduto, un po’ troppo in malafede, che Simona Halep avrebbe perso apposta il match in due set, in modo da sbarazzarsi della Williams e non doverla affrontare di nuovo in un’eventuale finale. Perché è vero che l’aveva battuta, ma Serena difficilmente si sarebbe lasciata domare un’altra volta. Per di più se è schiumante di rabbia e desiderosa di vendetta e si gioca un titolo di tale prestigio. Le malelingue sono state prontamente zittite: Halep ha giocato duramente e ha vinto un set, per poi mollare nel terzo. Evviva il fair play e il bel tennis, dunque.

Tuttavia, entrando nel merito della questione, bisogna porci questa domanda: è davvero giusto che, nei Wta Championships, le sorti di una tennista possano dipendere dal risultato dell’incontro di altre due tenniste? Ciò, fra l’altro, porta inevitabilmente a sospetti, ipotesi, maldicenze più o meno fondate di match combinati’ o sconfitte strategiche. E poi: è davvero giusto che una tennista passi in semifinale a spese di un’altra con pari punteggio, anche se ha perso contro quest’ultima? Questo è successo quest’anno ad Agnieszka Radwanska, che con una sola vittoria, si è qualificata ai danni Maria Sharapova, nonostante la siberiana l’avesse battuta in tre set. In altre parole: è giusto stabilire la qualificazione di una tennista in base al conteggio dei set e dei game e non basandosi sugli scontri diretti? Secondo me, no. Anzi, in generale a me non piace la formula a gironi del Masters, Wta, e di conseguenza anche Atp.

Singapore_WTA_Final_886582a Singapore 2014, la stretta di mano tra Ana Ivanovic e Simona Halep. Sorriso amaro per la serba, che ha vinto il match ma non si è qualificata per la semifinale.

Questo sistema, come molti sanno, non è esistito da sempre. La prima edizione dei Wta Championships si è giocata nel 1972. Per molti anni il torneo di fine anno era un torneo con un tabellone a eliminazione diretta, che veniva organizzato secondo teste di serie. A partecipare erano le prime 16 del ranking che si davano battaglia fino al turno finale che, dal 1984 al 1998, si disputava al meglio dei cinque set.
Nel 2003, anno in cui vinse Kim Clijsters, si passò alla formula del Round Robin che conosciamo oggi, adeguandosi a quella maschile. Due gruppi da 4 tenniste che si sfidano tutte contro tutte per decretare le prime due dei gironi e, quindi, le quattro semifinaliste.
Tale scelta è stata fatta probabilmente per rendere il torneo un’arena di combattimento ancora più esclusiva tra le migliori: restringendo la selezione alle prime 8 il torneo avrebbe avuto più visibilità e, presumibilmente, partite più combattute e spettacolari, proprio perché i margini sono assottigliati al massimo. In questo caso la tradizionale formula a eliminazione diretta non era fattibile, perché avrebbe fatto partire i torneo ai quarti e non avrebbe potuto durare che tre o quattro giorni. Una cosa inaccettabile dal punto di vista dello show-business e degli enormi interessi economici messi in campo.
Tuttavia, da circa trent’anni sono stati in molti, tra giornalisti, esperti e appassionati, a mettere in dubbio la sua validità, già nel circuito maschile. In Italia, ad esempio, un fervente oppositore del Round Robin è Rino Tommasi, che ha ribadito più volte la sua idea. D’accordo con lui è Ubaldo Scanagatta. In un suo articolo del 2009, riferendosi all’eliminazione di Andy Murray alle Atp Finals. Quell’anno capitò che, nello stesso girone, Roger Federer, Juan Martin Del Potro e Andy Murray fossero tutti a quota 2 vittorie (Fernando Verdasco era invece a 0), con lo stesso bilancio di set fatti e subiti (5/4). Per determinare i primi due qualificati si guardò così il conteggio dei game. Federer, primo classificato, aveva un bilancio di 44 game vinti e 40 persi; 45-43 il bilancio di Del Potro, secondo, e 44-43 quello di Murray – eliminato. Per un solo game, insomma, l’argentino era passato ai danni del britannico. Scanagatta scrive, in merito alla partita decisiva tra Roger e Juan:  “Un conto è lo spettacolo, lo show-business che consente agli organizzatori di mettere in campo tutti i migliori tennisti del mondo almeno tre volte – con gran goduria degli spettatori della tv e dello stadio –  un altro conto è una cosa seria come dovrebbero essere quelle che l’Atp chiama pomposamente finali mondiali. Andy Murray è stato eliminato nel girone eliminatorio per il conto dei games. Ma la cosa ridicola è che il povero – in questo caso – Murray è stato a due punti dalle semifinali quando Del Potro ha servito sul 5-4 nel tiebreak del secondo set (e doveva servire due volte!) perché se l’argentino avesse trasformato quelle due opportunità Federer sarebbe stato eliminato”.

David-Ferrer David Ferrer, nelle Atp Finals 2012, è stato eliminato per il conteggio dei set pur avendo gli stessi punti di Roger Federer e Juan Martin Del Potro.

“Io non so se Federer sapesse d’essere già qualificato”, scrive Scanagatta, “in conferenza stampa Roger non è ancora arrivato. Qualcuno potrebbe averglielo detto, o forse non averglielo detto. Ma un (presunto) campionato mondiale non può prestarsi ad ambiguità del genere, a situazioni di questo tipo, dove cioè un giocatore potrebbe – teoricamente per carità, sono sicuro che Federer non ci ha pensato un attimo, sia che fosse stato informato della sua avvenuta qualificazione sia che non lo fosse – decidere di favorire la qualificazione di un avversario piuttosto che di un altro. Perché gli è più simpatico, perché lo teme di meno. In conclusione: non è una cosa troppo seria. A meno che si dica apertamente che il Masters è una mega esibizione i cui contenuti puramente sportivi lasciano (o possono lasciare) il tempo che trovano“.

Le contestazioni si ripetono ogni anno da tempo immemore nelle Atp Finals. Accuse di ‘biscotti’, complotti e presunte ingiustizie sono quasi tradizione. Stessa cosa vale per il Masters femminile. Negli ultimi anni, in diversi casi, terminati i Round Robin, ci si è trovati con tre tenniste con gli stessi punti. E allora si andavano a vedere i set, e se anche quelli erano uguali, si prendeva il pallottoliere e si faceva il paziente conteggio dei game conquistati. Poi si tiravano le somme e si tracciava una riga rossa su chi aveva meno game. Più che sport, sembra ragioneria, statistica. Più che le singole vittorie sudate, lottate e conquistate sul campo a decidere tutto sono spesso calcoli fredda e a posteriori, stabiliti la notte a tavolino. Non importa solo che vinci, ma anche come, in che misura matematica vinci. Qualcosa che è oggettivamente assurdo, paradossale se applicato a uno sport singolare come il tennis, uno sport che ontologicamente presuppone la vittoria e la sconfitta come mors tua, vita mea (e non, dunque, mors mea, vita tua).

Che senso ha poi, che arrivi in semifinale una tennista che ha vinto solo un match su tre? Quest’anno è successo alla Radwanska, capitata in semifinale da miracolata prima di essere massacrata dalla Halep. Se fossero passate Kvitova o a Sharapova, anche loro rimaste a 1 partita vinta, avrei detto la stessa cosa. Nel 2013 era capitato alla Jankovic, che passò a spese di Victoria Azarenka e della nostra Sara Errani, che pure aveva sconfitto la serba. L’anno prima, invece, era stata la volta della mia adorata Vera Zvonareva, che aveva avuto la meglio su Wozniacki e Radwanska, che nonostante questo aveva sconfitto la russa.

Altre volte, invece, accade l’opposto. Se almeno quest’anno siamo stati col fiato sospeso fino alla fine del Round Robin, perché appunto le semifinaliste non erano ancora state decise, in molti altri casi le prime due del girone erano decise prima dell’ultima giornata, in cui – inevitabilmente – si disputavano match totalmente inutili, e spesso noiosi. Ricordo, ad esempio, un match delle Wta Finals tra Victoria Azarenka e Marion Bartoli, entrata al posto della Sharapova, ritirata nel corso del torneo. La bielorussa era già in semifinale, mentre la francese si limitava a giocare per la gloria e qualche soldo e punto in più. Vinse la Bartoli, al termine di un match tremendo in cui Vika cercava di faticare il meno possibile per non sprecare energie preziose in vista del match di semi contro la Zvonareva.

Ritorniamo a Simona Halep, che aveva la possibilità di ‘decidere’, con la sua partita, l’eliminazione di Serena Williams. Se avesse perso entrambi i set, molti avrebbero gridato allo scandalo e non avrebbero pensato che i meriti sarebbero stati di Ana Ivanovic. La rumena, d’altro canto, se domani perderà contro Serena si morderà un po’ le dita al pensiero che è stata proprio lei l”artefice’ della sua qualificazione.

E’ evidente che, alla fine, a prevalere nei Masters è sempre il giocatore più forte. Quello che vince. Basti guardare l’albo d’oro dell’Atp e della Wta per scoprire che non sono molte le sorprese. Questo, però, non toglie che il meccanismo del Round Robin è imperfetto. Terminate le polemiche, di solito si dovrebbero proporre delle soluzioni, il che è molto più difficile. Personalmente, sarebbe quella di ritornare alla vecchia formula del Masters, con il caro e vecchio tabellone e 16 giocatrici. Oppure, non mi dispiacerebbe neppure un torneo ad eliminazione diretta tra le otto, stabilito in base alle teste di serie, anche se durasse tre giorni.

Chiudiamo la piccola considerazione con un dato: in sole tre occasioni una tennista è riuscita a vincere il Masters non subendo una sola sconfitta: c’è riuscita Petra Kvitova nel 2011 e Serena Williams nel 2012 e nel 2013. Caroline Wozniacki quest’anno è stata l’unica delle 8 a vincere le 3 partite, per poi venire sconfitta da Serena al termine di una bellissima partita. Sul campo, finalmente, decisa dal cuore e dall’agonismo, non da numeri e statistiche.

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