Maria Sharapova, dalla Siberia all’Olimpo

Oggi la dèa Maria Sharapova compie 31 anni. Celebriamo con questo ritratto la bella e algida Masha, icona dello sport femminile e non solo.

Il regista Jacques Feyder ha raccontato che durante le riprese di ”Il bacio”, tutte le mattine alle 9, incaricava un assistente di andare a chiamare Greta Garbo e, tutte le volte, una voce alle sue spalle replicava: “Sono qui”. Nessuno riusciva a capire da dove fosse entrata ma lei era sempre lì, puntuale. Seppur dovendosi accontentare di un Oscar alla carriera, tra l’altro mai ritirato, la Garbo è considerata una leggenda e tuttora, a 77 anni dal suo addio alle scene, a 28 dalla sua scomparsa, il suo nome è sinonimo di cinema. Greta Garboda svedese errante’ a ‘divina’, una bellezza algida, quasi asessuata, un talento cristallino; virtù che si irradiano in pochissime persone. Maria Sharapova è una di queste, splendide, inaccessibili creature e quando il 9 giugno 2012, dall’alto della sua sublime eleganza si è ritrovata in mano un biglietto di sola andata per entrare nella storia del tennis, puntualmente lo ha riscosso. Ne era consapevole Maria, quando fasciata in un raffinato completino nero si è lasciata cadere in ginocchio sulla terra battuta del Court Philippe Chatrier, mentre con le mani si è coperta il viso, come già aveva fatto in altre tre momenti cruciali della sua carriera; sotto il sole incandescente di Melbourne nel 2008, in una fresca serata newyorkese di fine settembre nel 2006 e il 5 luglio del 2004 quando, appena 17enne, con i suoi colpi devastanti a 105 decibel, ha infranto il silenzio dei sacri campi di Wimbledon.

L’epopea di Maria Sharapova, la ‘divina del tennis’, parte però da lontano, addirittura da prima della sua stessa nascita. È il 26 aprile del 1986 quando nel corso di un test nella centrale V.O Lenin, distante diciotto chilometri da Cernobyl, in Ucraina, avviene il più grave incidente nella storia del nucleare. È a causa di quel disastro che Yuri Šarapov e sua moglie, residenti a Gomel, una verde città della Bielorussia nei pressi del confine ucraino, decidono di emigrare in Siberiaa Njagan; un paese di nemmeno 60.000 anime che fa dello sfruttamento del petrolio la sua principale risorsa economica, dove il 19 aprile 1987 vede la luce Marija Jur’evna Šarapova. Perché qualcuno si preoccupi di traslitterare il suo nome è questione di poco tempo: dopo un breve trasferimento a Soči, sulle rive del Mar Nero, soli sette anni, su suggerimento di Martina Navratilova che l’aveva notata durante un allenamento a Mosca, Marija si ritrova dirottata a Bradenton, in Florida, nell’Accademia di Nick Bollettieri, il quale la presenta al mondo come Maria Sharapova. Di quell’espatrio la russa dice di ricordare molto poco, giusto sua madre che le fa presente, mentre sta incartando le proprie cose, che «non potevo portare con me tutta la Russia». È stata ubbidiente Maria che della sua seconda patria, gli Stati Uniti, fiuta le illimitate opportunità in grado di offrirle, ne assorbe lo spirito, concretizza il sogno americano tramite il duro lavoro, il coraggio e la determinazione.

Maria Sharapova però, oltre a tutte queste qualità, possiede pure un’altra dote eccellente: l’intelligenza. E lo dimostra sin da tredicenne quando, al cronista di una troupe televisiva recatasi a Bradenton per realizzare un servizio sull’ultima scoperta del celebre pigmalione, alla domanda se preferisse vincere Wimbledon o guadagnare venti milioni di dollari, Maria risponde senza esitare: «Wimbledon, i soldi arriveranno poi». Ha ottenuto entrambi Masha e, seppure tanti soldi le sono caduti addosso sin da prima che trionfasse sull’erba più celebre del mondo, dopo quell’impresa il tassametro si è impennato a livelli esponenziali tanto che da svariate stagioni, tra premi e sponsor, guadagna in media 25 milioni di dollari all’anno.

La predestinazione che pare gravare su Maria Sharapova si dimostra fondata sin dal debutto, nel 2002 ad Indian Wells quando, beneficiando di una wild card supera al primo turno Brie Rippner, n.302 del ranking, prima di sbattere contro Monica Seles racimolando appena due game. Il suo team la fa ripiegare sul circuito ITF per fare esperienza, per guadagnare posizioni in classifica, per alimentarne la sete di vittoria. Che Maria Sharapova sia fatta di una ‘pasta speciale’ lo confermano i tre titoli consecutivi a Gunma, a Vancouver ed a Peachtree che le permettono di terminare la prima stagione nel circuito al 186esimo posto della classifica. La vittoria del suo primo torneo WTA ai Japan Open, gli ottavi raggiunti sul cemento di Los Angeles – dove costringe al terzo set Kim Clijsters – e il terzo turno a Wimbledon dove cede alla connazionale Svetlana Kuznetsova, le vale il premio di “newcomer of the year”, per il 2003.

Mentre le sorelle Williams, Justine Henin e Kim Clijsters si dividono i tornei più prestigiosi alternandosi al comando della classifica mondiale, Masha contraddice coloro che la vorrebbero come una fotocopia della bionda, svogliata e perdente Anna Kurnikova e nel 2004 da inizio alla sua scalata ai piani alti della classifica finché, sotto ai riflettori di Wimbledon, compie il primo capolavoro della sua carriera attingendo al meglio del suo repertorio caratteriale nei quarti dove fa suo un match che pare compromesso contro Ai Sugiyama – e tennistico, imponendosi su Lindsay Davenport in semifinale e su Serena Williams in finale. Un’escalation che fa di Maria Sharapova la prima russa, nonché la terza più giovane giocatricecapace di imporsi a Wimbledon.

Se da una parte esplode la Maria Mania”, d’altro canto si fa sentire una masnada di denigratori che la accusano di non essere altro che una monocorde picchiatrice. I rimproveri però non si limitano al campotroppo freddatroppo riservatatroppo altezzosatroppo irraggiungibile. Ed ora, con il senno di poi, non c’è da stupirsi se Maria Sharapova – che antipatica non è e forse nemmeno così gelida – si sia costruita sin da ragazzina una corazza inossidabile. Quando le aspettative sono sconfinate, quando metà del mondo che ruota intorno al tennis appare incantato da te, mentre l’altra metà non vede l’ora che tu compia un passo falso affinché possa uscirsene con il classico “L’avevo detto, io”; il rischio di cadere è sempre dietro l’angolo.

Dal magico Wimbledon del 2004 al successo al Roland Garros 2012, di sconfitte, di delusioni, di infortuni, di critiche, Maria Sharapova ne ha dovute fronteggiare talmente tante che in molti al posto suo avrebbero salutato la compagnia da un bel pezzo per gestire comodamente il proprio impero lontano da sacrifici, calendari convulsi e attese spropositate. Perché racchiusi in questi otto anni non c’è stata solo la tennista Sharapova, si è fatto largo pure un turbinio di sponsor agguerritissimi nel contendersela: da Clear a Cole Haan, da Evian a TAG Heuer, da Samsung a Tiffany & Co.; per arrivare a Head, Porsche e al suo main sponsor, la Nike. Come se non bastasse, nel 2013 la divina ha lanciato pure una linea di gomme e caramelle a forma di palline da tennis, le ormai ultracelebri Sugarpova.

«Ho sempre ascoltato solo me stessa, ignorando chi mi dava per finita. Nonostante tutti gli schiaffi presi, ho continuato a lavorare duro e non ho mai cercato scuse»; ci tiene a precisare Maria Sharapova dopo aver conquistato il Roland Garros nel 2012 per poi spiegare come ci sia stato un match chiave, capace di farle credere che avrebbe potuto vincere anche Parigi: «Nel 2010 non ero più una top 10 e persi al terzo contro Justine Henin. Pensai che se ero arrivata a un passo dal battere Justine sulla terra rossa, allora potevo battere chiunque». Una stima e un rispetto quello della russa nei confronti della belga non condiviso dal padre Yuri, colpevole, durante l’Australian Open 2008, di rivolgere alla rivale un gesto sconcertante in cui mimava di tagliarle la gola. Da quel giorno papà Yuri è stato praticamente bandito dal circuito e, vista la perenne tensione che gli hanno sempre procurato i match della figlia, forse per le sue coronarie è stato meglio così.

Tensione che nei match tra Maria e Justine, non è mai mancata. È battendo in finale la Henin che Masha si assicura il secondo slam, l’US Open nel 2006, così come due anni dopo è prevalendo sulla Henin nei quarti, che si spiana la strada per conquistare l’Australian Open. Nonostante dalle loro battaglie Maria Sharapova abbia subito pure diverse sconfitte brucianti, ha sempre sfoggiato con orgoglio le cicatrici rimediate; come quando dopo 3 ore e 25 minuti di lotta perse la finale del Master nel 2007 e, durante la premiazione, si disse comunque felice per il risultato, ragione in più che a batterla è stata «la migliore del mondo». WTA Tour Championships che tra l’altro la siberiana aveva vinto tre anni prima, in finale su Serena Williams, dopo aver recuperato uno svantaggio di 0-4 al terzo set; mentre avrebbe perso oltre alla finale del 2007 anche quella del 2012 per mano di Serena Williams.

Una rivalità quella tra la russa e la minore delle sorelle più vincenti della storia del tennis decisamente a senso unico se si considera che, fino a ad ora, su 21 incontri disputati Maria Sharapova è riuscita a farne propri solamente 2: le finali di Wimbledon e del Master, entrambe datate 2004. Al che, vuoi per caratteristiche di gioco a lei ostiche, vuoi per una sudditanza psicologica ingigantitasi sfida dopo sfida, Masha ha raggranellato, sparsi qua e là, solamente tre set. Vien da sé che le sconfitte subite nei grandi atti post-Roland Garros 2012 sono state per lo più timbrate da Serena: dai Giochi Olimpici di Londra al Master, dal Roland Garros 2013 a Melbourne 2015.

Dopo i sensazionali successi iniziali, dopo essere salita in vetta alla classifica per poi ricadere nei bassifondi, dopo l’intervento alla spalla, seppure tra qualche preoccupate alto e basso, Maria Sharapova è risalita e; al di là del Career Slam, al di là dell’essere riuscita a issarsi fino al primo posto del ranking in cinque diverse occasioni nell’arco di sette anni; può essere considerata una costante del tennis dei nostri giorni.

Il bis al Roland Garros sferrato nel 2014 – avvenuto dopo il passaggio ai box tra Thomas Hogstedt e Sven Groeneveld – ha issato Maria Sharapova a quota 5 titoli del Grande Slam a cui si aggiungono un Master, 3 trionfi a Stoccarda, 2 successi a Indian Wells, a Roma e a San Diego, oltre a svariati eventi di valore tra i quali Cincinnati, Pechino, Madrid e Tokyo; che la spingono a 37 tornei WTA vinti complessivamente. Ci sono poi altre 7 finali e 10 semifinali perse tra slam e Master, un argento alle Olimpiadi di Londra 2012; dove tra l’altro è stata la portabandiera per la Russia, onore che non era mai stato concesso prima a una donna.

Può essere considerata il simbolo del sogno che si avvera, Maria Sharapova. Da bambina decise che lo avrebbe scalato quel monte, che li avrebbe scardinati quei cancelli, che l’Olimpo sarebbe stato un po’ anche suo. È stato un sogno umanamente pagato a caro prezzo. Divisa tra sacrifici e battaglie, tra amori e odi esagerati, mentre faceva i conti con le proprie imperfezioni, lo show business l’ha ricoperta d’oro,ne ha fatto un simbolole ha impedito di essere sé stessa. È sempre valsa il costo del biglietto. Sempre. Non tanto per lo spessore del gioco che porta in campo. Quello è sempre stato un aspetto secondario. Ciò che importa è che in campo ci sia leiMaria Sharapova, un buon motivo per desiderare una sua vittoria, un ottima ragione per sperare in una sconfitta.

È la rappresentazione perfetta della diva che gioca a tennis: sufficientemente bella e campionessa da renderla la giocatrice più popolare. Hanno fatto di Maria Sharapova tutto e il contrario di tutto. In base all’angolazione dalla quale la si guarda, la si scruta. In fondo non c’è niente di più facile che adorare o disprezzare qualcosa che non si conosce. E così venne il giorno in cui la WADA decise di affossare lo sport russo e, come d’incanto, in vista delle Olimpiadi a Rio 2016, Maria Sharapova divenne la vittima ideale per la lotta contro il dopingNe è uscita vilipesaumiliata, ma soprattutto macchiata. Perché il doping è una colpa che dall’anima non se ne va più.

Avvinghiata all’interno di un maelstrom inimmaginabile, costretta a lottare contro una serie di piccoli infortuni che le impediscono di trovare una sorta di continuità, la Maria Sharapova post squalifica è una donna cambiatapiù emotivapiù vulnerabile; quasi che un pizzico di quell’esasperato coraggio che insieme all’irremovibile determinazione ha contribuito a rendere possibile la sua epopea, si sia trasfigurato in una disperata incertezza. Conscia che il tempo sta irrimediabilmente passando, la gelida presa di tutti quei fantasmi che cercano di trascinarla giù, in una voragine senza fondo, hanno starato quei dosaggi precisi, accuratamente strutturati negli anni, che, in balia del caos hanno imbrattato, degenerato il suo quadro operativo e artistico.

Un dipinto, quello che riassume la vita sportiva e non di Maria Sharapova, che per quanto ‘battuto’ a prezzi record; rimane comunque il frutto del sudore, della determinazione, delle pennellate dell’autrice, un’ex ragazzina che nel momento in cui è partita alla conquista del mondo non ha potuto mettere in valigia “tutta la Russia”, ma che paradossalmente in un contorto gioco di specchi, la sua Patria non l’ha mai lasciata andare completamente via. Al di là del tennis, al di là di ciò che sarà il futuro di Maria Sharapova, la fiaccola Olimpica portata a Sochi si è dimostrata essere la metafora di una vita. Perché nell’Olimpo Maria Sharapova già vi risiede.

Samantha Casella

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