Agam Bernardini: come vincere a tennis senza smettere di divertirsi (parte 1/3)

Agam Romano Bernardini è autore di "Lo Zen e l'arte di giocare a tennis", un libro che racconta come sia possibile giocare a tennis senza lasciarsi sopraffare dagli ostacoli della mente. Agli amici di Tennis Circus ha regalato una lunga chiacchierata, nella quale ha raccontato il suo modo di intendere il tennis, le sue esperienze e lo Zen.

Da ragazzo, Romano Bernardini, è stato uno dei giovani più promettenti del tennis italiano. Un amante del gioco d’attacco, preferibilmente serve&volley, che ha sofferto, maledettamente, i cosiddetti “pallettari”. Loro vincevano, ma lui giocava bene. Un problema comune a tanti tennisti, dall’amatore al professionista. Passati i trenta, complice l’amore, Romano si è trasferito in India per quasi un anno. Al suo ritorno in Italia ha chiesto di farsi chiamare Agam, rivelando di aver vissuto una profonda trasformazione interiore. In seguito, ha ricominciato a gareggiare, praticamente senza essersi mai allenato in modo adeguato, tuttavia, non perdendo un solo incontro, tra tornei singolari e di doppio. Ma com’è riuscito in questa impresa? Fortunatamente non si tratta di un mistero, poiché Agam ha voluto condividere i suoi segreti con il maggior numero di persone, raccontando la sua storia nelle pagine del libro “Lo Zen e l’arte di giocare a tennis”. Oggi  Agam Bernardini ha abbandonato l’attività agonistica. La sua ultima tessera FIT risale a qualche anno fa, la cui dicitura riportava over 70. Quando il tennis non lo impegna, per una lezione o per due scambi con un amico, ama fare lunghe passeggiate per boschi maremmani. Agli amici di TennisCircus ha regalato una lunga chiacchierata, dove ha raccontato il suo modo di intendere il tennis, le sue esperienze e lo Zen.

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NOMEN OMEN – Iniziamo questa chiacchierata dal momento di quella che potremmo identificare come la tua seconda nascita. Quando e perché hai scelto di abbandonare il tuo nome di battesimo?  

A dire la verità, il nome Romano non mi era mai piaciuto, né il suono, né i vari significati che i miei amici gli davano: Romano de Roma, salame romano ecc. ecc. Quando sono arrivato in India e ho cambiato il mio nome in Prem Agam, che significa “un amore così profondo che non si può misurare” potete capire la mia gioia: avevo finalmente un nome in cui mi riconoscevo e che mi piaceva pronunciare e sentire pronunciare dagli altri. Ma soprattutto questo nuovo nome è stato il simbolo di un cambiamento di vita totale e radicale, non solo della mia vita privata, ma anche della mia vita tennistica. Romano Bernardini era un perdente nato, molto forte atleticamente e tecnicamente, ma capace di perdere con chiunque, soprattutto con giocatori meno forti; Agam invece, come vi racconterò più dettagliatamente più avanti, era praticamente invincibile e soprattutto molto forte mentalmente e psicologicamente. Come potete capire il cambio mi piaceva molto e finalmente mi riconoscevo nel mio nuovo nome

 

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CARRIERA PROMETTENTE – Scrive Nicola Pietrangeli nella prefazione al tuo libro: avevi buone qualità tecniche, che ti avrebbero permesso una discreta carriera ma non sono state accompagnate dalla necessaria forza mentale e, così, sei rimasto come decine di giocatori a galleggiare nelle classifiche, alternando partite sensazionali ad altre in cui finivi in doccia senza neanche entrare in partita. Puoi raccontarci il tuo percorso agonistico? 

Come racconto nel mio libro, da ragazzo giocavo molto bene e soprattutto ero famoso per le mie gambe; non c’era palla corta o palla angolata che non potevo prendere, a rete era quasi impossibile superarmi, ma erano le palle troppo facili il mio problema; non avevo il “killer istinct”, mi dispiaceva fare il punto al mio avversario e tiravo più piano per fargli prendere la palla e continuare a giocare. Non avevo interesse a fare il punto, ma volevo continuare lo scambio e divertirmi. In allenamento, battevo giocatori fortissimi, che sono arrivati a giocare in Coppa Davis, ma quando ho iniziato a fare i tornei, soprattutto quelli a squadre, la musica è cambiata: bisognava portare il punto a casa e vincere a tutti i costi, altrimenti tutti mi giudicavano scarso: così il tennis, da un gioco, si è trasformato in un lavoro e in una sofferenza. Non giocavo più per il piacere di farlo, ma pensavo solo a vincere e questo mi rendeva teso e preoccupato e il mio gioco ne risentiva in maniera davvero drammatica. Ho continuato a fare tornei, perché giocare mi piaceva da morire e mi piaceva anche la sfida che ogni nuovo giocatore rappresentava, ma bastava il minimo ostacolo o la minima difficoltà e sparivo dal campo e non mi divertivo più.

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Naturalmente sono arrivato alla conclusione che il tennis agonistico non faceva per me e a quei tempi nessuno sapeva aiutarmi con il mio problema, che non era né atletico né tecnico, ma chiaramente solo mentale e psicologico. Ho iniziato a fare il maestro di tennis e debbo dire che mi riusciva piuttosto bene e soprattutto non mi faceva sentire la tensione e i disagi profondi che provavo nella competizione. Ho continuato a fare qualche torneo per divertimento, ma il mio sogno di diventare un giocatore di alto livello ormai era svanito del tutto. Vincevo qualche partita con giocatori fortissimi, perché non avevo nulla da perdere e davo il meglio di me, ma era solo un fuoco di paglia e ricadevo subito nei miei problemi, con mia grande frustrazione: fine di una carriera molto promettente!!!

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FAB FOUR – Segui ancora il tennis professionistico? Chi sono le tue giocatrici e i tuoi giocatori preferiti?

Si, seguo ancora il tennis professionistico in televisione e debbo dire che gli ultimi anni sono stati davvero eccezionali, con Federer, Nadal, Djokovic, Murray e tanti altri. A parte Federer, che non si può non amare ed ammirare, specialmente per il modo in cui guarda la palla fino al momento dell’impatto e anche dopo e per la sua eleganza e il suo stile praticamente perfetto, ho sempre avuto un debole per Nadal: per la sua capacità di rimanere centrato e focalizzato sullo scambio per tutta la durata della partita; in questo è davvero fantastico. Djokovic, invece, non riesco ad amarlo fino in fondo, anche se è molto simpatico, perché non è molto bello da vedere e non mi emoziona, ma è davvero fortissimo e ha una forza mentale incredibile. Murray l’ho sempre ammirato per la sue capacità difensive, ma ha un gioco troppo limitato, più per il carattere forse, che non per le capacità tecniche che sono eccezionali.”

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Mi piacciono anche molto Del Potro, Nishikori e Monfils, perché è molto divertente e tanti altri che mi meravigliano per la loro capacità di essere lì anno dopo anno e vi assicuro che non è facile come sembra. Fra le donne, sono molte le giocatrici che mi piace guardare per stile ed eleganza, ma troppo spesso le loro partite sono molto altalenanti e come avrete capito, per me, la cosa che conta è vedere la presenza e l’attenzione che i giocatori riescono a mantenere per tutta la partita. Ma anche per le donne, sono stati anni fantastici e ci hanno regalato partite indimenticabili, non ultima la semifinale fra Roberta Vinci e Serena e la finale con la Pennetta. La cosa più bella di quella finale, per me, è stato il momento in cui le due Italiane, sedute in attesa della premiazione, parlavano, ridevano e si abbracciavano come due vecchie amiche e non come due nemiche e rivali che si ignorano.

IL COMPAGNO DI GIOCO –  Si gioca “contro” o si gioca “con” qualcuno?! 

Come potete immaginare, per me si gioca sempre con l’avversario, che io chiamo “compagno di gioco” e mai contro di lui, sia per un motivo umano: di fronte a noi abbiamo una “persona” che scende in campo per giocare a tennis, come noi, e spero cerchi di divertirsi. Inoltre, vederlo come un nemico da battere, non può che renderci più tesi e nervosi e questo non ci aiuta a giocare bene. Ci sono molti agonisti di vari sport, che per rendere al massimo, cercano di odiare il loro avversario, ma questo comportamento, che inizialmente può dare risultati positivi, a lungo temine non funziona perché la rabbia e l’adrenalina, circolando nel nostro organismo, ci fanno stancare molto prima. Se noi invece vediamo il giocatore che ci sta di fronte come “un degno avversario” cioè come una persona che stimiamo molto e di cui conosciamo bene i punti di forza, questo ci porta a dare il meglio di noi stessi e ad accettare una sfida in cui dobbiamo esprimere tutto il nostro potenziale e magari dare qualcosa di più.”

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Il segreto dell’approccio Zen, di cui parleremo più dettagliatamente, è che la soluzione di tutti i nostri problemi è dentro di noi e non dipende da fattori esterni. Può sembrare molto difficile, ma se ci pensate bene, ci da una libertà immensa e la possibilità di affrontare le difficoltà che incontriamo sia nella vita che sui campi da tennis, in totale libertà, senza dipendere da fattori esterni su cui non abbiamo nessuna possibilità di intervento. Se il nostro avversario ci è particolarmente ostico, come accadeva a me con i pallettari, se tira il vento, cosa che ci da particolarmente fastidio o giochiamo con delle palle che non ci piacciono ecc. ecc., dentro di noi abbiamo sempre la possibiltà di trovare il modo di superare l’ostacolo, mettendo tutta la nostra energia sulla tecnica o l’esercizo di attenzione che preferiamo, invece di pensare alle cose che ci danno fastidio e che non possiamo assolutamente cambiare.

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L’australiano Nick Kyrgios ha dichiarato che se vincesse gli Australian Open, lo slam di casa, smetterebbe di giocare a tennis per un anno. Cosa pensi di queste dichiarazioni?

La dichiarazione di Kirgios, mi danno lo spunto per parlare di un aspetto del tennis moderno che non mi piace molto: i giocatori sono costretti a fare incredibili tour de force e a giocare, quasi tutto l’anno, una quantità di tornei incredibile; non c’è da meravigliarsi se si fanno male e si devono fermare per lunghi periodi: ma la macchina dei soldi non si ferma mai e ci si dimentica che il corpo, dopo un grande sforzo, ha bisogno di riposo; ma non c’è tempo per riposarsi, per cui oggi gli atleti sono costretti a ricorrere a meccanismi come la camera iperbarica o alla cryotherapy, che sono comunque degli shock per il corpo. Kirgios rappresenta chiaramente un estremo di questo problema: ha un talento immenso, ma non ama lavorare come un pazzo come fanno tutti gli altri, cosa che accade molto spesso a chi ha talento e non deve lavorare troppo per giocare bene.”

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Dall’altra, ci sono gli stakanovisti, di cui Lendl era il prototipo, che riescono a fare una sola cosa nella vita e con una costanza e dedizione che pochi hanno. Questi sono i due estremi; per la me la soluzione sta nel mezzo: permettere ai giocatori di riposarsi più spesso e soprattutto non caricarli di tensioni terribili, come accade nel sistema dei punti ATP, per cui se hai vinto un torneo, l’anno dopo lo devi rivincere o perdi moltisisimi punti. E’ un sistema basato sulla tensione, sulla competizione e l’avidità, emozioni che non aiutano di certo i giocatori ad entrare in campo sereni e rilassati e a dare il meglio di sé. Un’ultima cosa che vorrei dire sul tennis moderno: la divisione dei premi è davvero scandalosa: ci sono giocatori che guadagnano milioni di dollari e altri professionisti, senza i quali il circo del tennis non potrebbe esistere, che non solo non guadagnano niente, ma sono costretti a spendere migliaia di dollari l’anno, con la sola speranza di entrare prima o poi nella elite di quelli che guadagnano; ma questo aggiunge ancora più tensione alla vita dei tennisti. Una più equa distribuzione delle enormi quantità di denaro che sono disponibili nel tennis odierno, migliorerebbe senz’altro lo spettacolo e la vita di tutti tennisti professionisti, inclusi quelli che guadagnano centinaia di milioni.

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