Domandare è lecito, rispondere è dovere?

Riflessioni a metà tra etica dello sport e costume sul rapporto tra media e sportivi, passando per un anello importante: il pubblico, termometro dell'interesse per l'evento sportivo anche, e non solo, del mondo economico. Con una proposta: una formazione specificia per rapportarsi ai media dedicata agli sportivi, oltre che un codice deontologico minimo.

Mi permetto di mettere il punto interrogativo al vecchio adagio popolare.
Chiedere è lecito, quasi sempre, ma rispondere dovrebbe essere, almeno secondo la tradizione popolare, un dovere. E invece pare che nella querelle “Giorgi” nel post-match della sfortunata (o sciagurata?) trasferta francese di Federation Cup ci siano dei dubbi di interpratazione del motto. Cerchiamo di andare un po’ più in profondità.

Archiviata la conferenza stampa e le riflessioni (per noi fatte da Yuri Benaglio in questo pezzo) del caso, sul quale non mi pare il caso di aggiungere molto altro a quanto l’evidenza stessa già non dica a chiarissime lettere, credo sia invece necessario ragionare del tema di fondo sotteso a quanto accaduto. Ovvero: quali sono le responsabilità dei giornalisti nel porre le domande agli sportivi? quali limiti rispettare? e d’altra parte, quali i doveri dello sportivo di turno, ricordando che più alto è il livello di gioco e di competezione e maggiore è la ricaduta mediatica del personaggio pubblico, e quindi i doveri che egli o ella ha nei confronti di chi lo\la segue.

Qui troviamo la carta che definisce la deontologia del comportamento del giornalista. Va da sè, anche agli occhi del più sprovveduto dei lettori, che il caso in questione non rientra in alcuna situazione di eccezione rispetto alle lecità del domandare sportivo. E quindi, già questo ci conferma che i problemi, nel caso specifico sono palesemente altri.
Ma se è vero, come è vero, che esiste la deontologia professionale del giornalista, ci domandiamo se ne esista una parimenti anche per gli sportivi. Sono passati anni dalle mitologie e dagli stereotipi dei ciclisti, anche loro professionisti, che affannati ed emozionati di fronte alle telecamere televisive affermavano “sono contento di essere arrivato uno”. Gli sportivi oggi sono spesso degli scafati utilizzatori dei media, di ogni fattura. Ma talvolta no.
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Fuori dal gossip, ci chiediamo: di cosa è lecito parlare con uno sportivo, se non, di grazia, del suo lavoro? Ho letto in rete commenti che giustificavano il comportamento della Giorgi richiamando in causa Marcelo Rios, noto per lo scarso feeling con i media talmente mal digeriti da trovare preferibile pagare le multe all’ATP pur di evitare di rilasciare interviste (salvo poi farsi risentire per aver ridicolmente chiesto indietro il titolo di Petr Korda in Australia nel 1998). Credo che invece sia un assoluto dovere dello sportivo professionista riconoscere l’interesse che i media gli riconoscono, a loro volta. L’intervista, il contatto con i media, fanno parte del proprio lavoro, nella misura in cui esiste un pubblico che segue quello sportivo, ne difende (o ne critica, a seconda dei casi) il comportamento, la carriera, le scelte. Perché proprio in virtù dell’esistenza di quel pubblico, a casa, negli stadi, in rete, esistono aziende disposte ad investire in questo sport, a dare lavoro alle maestranze impegnate nei tornei, e quindi, in un circuito per nulla vizioso, ad alimentare il lavoro dei giornali, delle televisioni e dei siti specializzati.

Interrompere questo circuito è sbagliato, insomma. Al di là, ripeto, del Caso-Giorgi, ci pare necessaria una formazione almeno sommaria per gli sportivi professionisti, che vada un passo al di là della buona educazione e della personale disponibilità ad occuparsi della propria immagine. E, ancora, più in alto andiamo, e più questo dovere diventa impellente, cruciale. Se si paga una multa per aver disertato una conferenza stampa non lo si fa solo per rendere omaggio ai munifici sponsor di cui sopra, ma anche per dare un giusto riconoscimento a chi ha passato ore davanti alla televisione, disposto ad ascoltare una parola di celebrazione o una di rammarico a seconda del risultato.

Si discute troppo spesso del concetto di self-branding,  associandolo ad individui che pur non avendo alcun particolare merito e occupazione, costruiscono la loro immagine attraverso i social media. Mi chiedo: cosa accade agli sportivi che banalizzano se stessi evidenziando la propria impreparazione (emotiva o sostanziale che sia) di fronte ai cronisti? Posto che ad una domanda banale non può che esserci come conseguenza una risposta altrettando banale (o una pacata ribellione, usando l’arma dell’ironia), non è forse legittimo, anzi, doveroso, rispondere compiutamente ad una domanda che banale non è? E cosa accade, al contrario, ai giornalisti che pongono domande scontate e banali? Non vengono forse travolti dall’ironia, specie in rete?

Ripensiamo quindi insieme, addetti ai lavori e aficionados, al rapporto complesso tra media ed evento sportivo, ricordando che esiste un pubblico attraverso cui entrambi, giornalisti e sportivi, acquistano un senso più profondo della semplice passione sportiva e professionale.

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