Auguri a Evgenij Kafelnikov, il principe delle ombre

Oggi l'ex tennista russo Evgenij Kafelnikov, soprannominato "Kalashnikov", compie 42 anni. Un personaggio inquieto, misterioso e schivo, diviso tra i grandi risultati in campo e l'inquietudine privata, i tormenti passionali che lo hanno reso, agli occhi di tutti, un vero enigma, un'ombra. Vi raccontiamo la sua storia con uno splendido ritratto di Samantha Casella.

La celebre frase di Sir Wiston Churchill, quando definì le intenzioni della Russia dopo la spartizione militare della Polonia con la Germania hitleriana, “un indovinello avvolto in un mistero all’interno di un enigma” – fatte le debite proporzioni – pare combaciare in tutta la sua sinistra perfezione con l’indole indecifrabile, che ha determinato irrimediabilmente l’irrazionale coesistenza di trionfi e cadute, nel campo come nella vita, di un ragazzo il cui destino è legato alla storia dello sport russo: Evgeny Kafelnikov. 

Nato a Sochi, il 18 febbraio del 1974, seppure alla nascita pesasse ben 5 kg e 100 grammi, quando il padre Aleksandr lo accompagna per la prima volto al Riviera Park, un Circolo Tennis immerso in un bellissimo parco della città, Evgeny ha cinque anni ed è talmente gracile che il maestro a cui viene affidato, tale Peschanko, si chiede come faccia a reggere la racchetta. Eppure, oltre ad avere la forza per tener ben salda l’arma del mestiere, sembra possere pure una dimestichezza tale da consentirgli di piazzare la pallina dove vuole.

E’ però sotto alla rigida guida di Valeriy Shishkin che Evgeny inizia a domare  sempre più traiettorie, impreziosendole a poco poco di quella forza, di quell’aggressività che, in perenne contrasto con i gesti aggraziati, diventeranno le colonne portanti del suo gioco fondato su una potenza mai banale in quanto, agile, dinamica. Quando si affaccia nel Circuito Juniors, dominando insieme ad Andrei Medvedev i Campionati Europei e la Sunshine Cup, Kafelnikov è un quattordicenne affusolato, il cui volto pallido, lo sguardo impenetrabile e il portamento dignitoso gli donano un’inconsueta aria aristocratica.

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Che nelle sue vene ristagni una freddezza che sembra appartenere più che temperata Sochi in cui è nato, alla gelida Mosca in cui è stato addestrato è probabilmente uno degli aspetti di cui  va più fieroLepyoshin Anatoly, il coach prescelto per accompagnarlo nel mondo dei professionisti. Impossibile capire cosa passi nella mente di quel russo che mastica mal volentieri qualche parola d’inglese, indecifrabile nella vittoria quanto nella sconfitta, “inconoscibile” per colleghi e addetti ai lavori.

“Io sono quello che sono indipendentemente da quello che gli altri possono pensare di me”; ha precisato sin dagli esordi il Principe Eugenio le cui accelerazioni violente e precise hanno finito con il privarlo del soprannome originale a discapito del più letale Kalashnikov.  Il 9 gennaio 1994, da numero 102 del ranking Kafelnikov vince il suo primo torneo ATP sul cemento di Adelaide. Due mesi dopo il russo si impone sul sintetico indoor di Copenaghen ed il 28 agosto svetta a Long Island. A fine anno, è il numero 11 del mondo. La scalata alla top ten ha inizio nel 1995. Il 19 febbraio 1995, Evgeny conquista il torneo di Milano piegando in finale Boris Becker con il punteggio di 7-5 5-7 7-6; mentre a marzo si dimostra  profeta in Patria a San Pietroburgo. Poi il Roland Garros. Partito come nona testa di serie il russo piega Andre Agassi prima di lasciar strada, in semifinale, a Thomas Muster.

In un’annata in cui raggiunge i quarti di finale a Wimbledon, dopo essersi seduto sul quarto gradino del ranking, Kafelnikov chiude al sesto posto della classifica.Per entrare nella storia del tennis Evgeny Kafelnikov deve attendere il 9 giugno del 1996. Presentatosi al Roland Garros con nove titoli ATP all’attivo, il russo disintegra nell’ordine lo spagnolo Galo Blanco 6-1 6-3 6-3, lo svedese Thomas Johansson 6-2 7-5 6-3, e gli ispanici Felix Mantilla 6-4 6-2 6-2 e Francisco Clavet 6-4 6-3 6-3 finché, giunto ai quarti, respinge gli assalti dell’olandese Richard Krajcek. A uscire con le ossa rotte è poi il numero uno del mondo Pete Sampras che, nell’unica semifinale disputata agli Open di Francia rimedia un umiliante 7-6 6-0 6-2. In finale Evgeny Kafelnikov demolisce 7-5 7-5 7-6 Michael Stich, l’ultimo ostacolo tra lui e il sogno di diventare il primo russo a trionfare in un torneo dello Slam.

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Salito a numero 3 del mondo, dato come prossimo leader, il letale Kafelnikov però si inceppa. Gli occhi di ghiaccio rimangono, ma nelle fasi cruciali non di rado il cecchino dell‘ormai ex Unione Sovietica fa cilecca. La naturalezza dell’impatto a tratti produce colpi di una bellezza disarmante ma, al tempo stesso, laddove la potenza prima sembrava unirsi a sostegno del talento, ora sembra profanarlo. Nel biennio 1997-1998 Kafelnikov stringe in pugno sei tornei, tra cui due sentitissime Kremlin Cup e due sigilli sull’erba di Halle. C’è pure una finale al Master, dove però raccatta appena sette game a un implacabile Pete Sampras.

La stampa non perde occasione per fargli notare come tutto questo sia troppo poco per un talentuoso come lui, ignara della rabbia, del fuoco, che certamente ardeva nel suo cuore e che verso la fine del 1996 aveva preso a pulsare per Masha Tishkova, una divorziata la cui prima figlia, Diana, viene adottata seduta stante dal campione. Una storia contraddistinta da una gelosia che, si vocifera, spingono Evgeny a rinunciare agli Australian Open nel 1998, un maelstrom di passioni in perenne conflitto tra loro che non si placano né con il matrimonio, né con la nascita di Aleysa nell’ottobre del 1998.

A rimettere ordine nella testa di Kafelnikov ci prova Larry Stefanki. Una collaborazione accolta con una certa diffidenza nei ‘corridoi dei Cremlino’ e che, seppur battezzata dopo nemmeno un mese dal successo agli Australian Open, con il senno di poi, quel secondo Slam andrebbe forse letto non tanto come il frutto del lavoro e della persuasione messa in atto dal grande coach statunitense, quanto semmai come un’impennata d’orgoglio da parte di un fuoriclasse irrecuperabile a tempo pieno ma capace di picchi eccelsi come, quando, il 3 maggio 1999, il computer lo riconosce numero uno del mondo. Il giorno dopo Boris Eltsin gli invia un telegramma: “Per la prima volta in 122 anni di storia, un atleta russo è diventato numero uno del mondo. E’ un grande traguardo per il nostro Paese. Giocando io stesso tennis, ho idea di quanto sia difficile raggiungere un simile risultato“.

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Sono troppi i problemi che assillano la mente analitica del russo. Sono troppe le vicende che squarciano il suo bisogno di quiete. Non se ne fa una ragione Evegeny del divorzio, così come non vuole staccarsi dalla figlia. Lotta per averne la custodia e ci riesce, ma queste vittorie gli succhiano energie, lo inaridiscono. In mezzo a quel marasma afferra un’altra finale a Melbourne e due semifinali all’US Open eppure, non fosse stato per il legame viscerale verso la Madre Russia la carriera di Evgeny Kafelnikov sarebbe forse terminata a ventisei anni. Lui però esige un simbolo che per i russi vale quanto dieci Slam: l’oro Olimpico. Lo stringe in pugno, o meglio, se lo mette al collo ai Giochi Olimpici di Sydney  2000 quando batte in finale Tommy Haas con il punteggio di 7-6 3-6 6-2 4-6 6-3. E poi c’è l’ossessione che porta il nome di Coppa Davis. Le lacrime di Kafelnikov sono forse state l’emblema della finale del 1994, persa contro la Svezia, e del 1995, persa contro gli Stati Uniti; entrambe nella sua Mosca. Il sogno impossibile si avvera nel 2002, su un campo di terra battuta indoor di Parigi quando insieme a Marat Safin, Mikhail Youzhny e Andrei Stoliarov trascina la sua squadra in un’incredibile rimonta contro la Francia, per batterla 3-2 e regalare alla Russia la sua prima Coppa Davis.

Una dedizione verso il suo Paese espressa anche con gesti che esulano dal campo stesso: se la Kremlin Cup è sopravvissuta a un difficile periodo tra la metà degli anni 90 e l’inizio del 2000 è grazie alle garanzie messe in atto da Evgeny. Una generosità di cui è testimone l’assegno di 137.000$, premio vinto alla quinta Kremlin Cup, devoluto alle famiglie che hanno perso parenti in un incidente aereo vicino alla sua città natale. Accusato di avere amicizie appartenenti alla malavita russa, Kafelnikov si limita a replicare che, una volta appesa la racchetta al chiodo, avrebbe “fatto del suo meglio per migliorare la vita delle persone”.

Alla fine il tennis ha perso Kafelnikov e, come scrisse il giornalista di The Guardian Jon Henderson, “mi mancherà, seppure non so dire cosa di lui mi mancherà”. Giusto per mescolare un po’ le carte prima Evgeny si da al poker poi al golf. In quest’ultima disciplina ottiene risultati sorprendenti. Parallelamente pesca e ricopre qualche carica di prestigio in Federazione. Il tutto, mentresullo sfondo della sua bacheca continuano a luccicare 26 tornei in singolare, tra cui un Roland Garros, un Australian Open, e un oro Olimpico; 27 titoli in doppio, tra cui 3 Roland Garros ed un US Open. Già, perché Evgeny è stato anche uno principe in doppio. Rimane l’enigma, destinato a rimanere velato come le sue parole: “Due, forse tre persone sanno veramente di me. Ma per tutti gli altri voglio essere un’ombra”.

Di Samantha Casella

Regista, fondatrice del sito www.tennisfocuson.com e di Focus On: Svetlana Kuznetsova.

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