Il difficile destino di chiamarsi Radwanska

Guardo Agnieszka giocare e mi accorgo, quasi per sbaglio, di quanto sia tremendamente diversa. Una sorta di narciso ed elegante fenicottero, consapevole delle proprie anacronistiche qualità.

“Sì, il mio libro si chiama “Io sono Isia”. Il motivo per cui ho scelto questo titolo? Da piccola non sapevo pronunciare il mio nome, dicevo “Agnisia” o ancora più spesso “Isia”.
Con queste parole Agnieszka Radwanska apre la conferenza stampa con la quale, ufficialmente, presenta la sua autobiografia. Guarda il pubblico con consapevole malizia, incrocia le gambe e sorride. Sembra tranquilla, serena. L’esatto opposto della donna che, da gennaio ad oggi, ha sommessamente calcato i campi di tutto il mondo. Agnieszka a breve diventerà moglie, sposando Dawit Celt, lo sparring che con lei viaggia dal 2012, anno in cui la polacca raggiunse l’unica finale Slam della carriera, a Wimbledon.
Sostiene che quello sia il suo torneo preferito, l’unico nel quale senta, senza timori, di potersi esprimere al meglio.
Il 2017 è un anno tragico. Una sola finale, persa a Sydney con la meccanica Konta. Tante sconfitte, tanti errori, un cambio di racchetta durato due mesi e subito corretto. La stagione su terra è un susseguirsi di ritiri. Prima Madrid, poi Roma, entrambi motivati da un infortunio al piede che, probabilmente, la costringerà in futuro ad un’operazione chirurgica.
Arriva poi il forfait a Birmingham, torneo divenuto noto per la vittoria di Petra Kvitova. Un virus ha colpito Aga, che per settimane non scende in campo, faticando persino a mangiare. Il suo preparatore atletico, preoccupato, la vede rapidamente calare di peso. In un attimo, si dice, la polacca perde sei chili.
Torna a Wimbledon in completa confusione, dopo essere stata eliminata da Lauren Davis al primo turno di Eastbourne, torneo disputato senza allenamento e nemmeno un match giocato sull’erba.
Cederà a Kutznetsova, in un quarto turno di totale sottomissione.
Ai microfoni si dirà però soddisfatta: “Il tennis è come una dipendenza: più giochi, più vorresti giocare. È la mia vita, ed è quello che voglio fare finché il mio corpo non dirà basta. E non è ancora arrivato quel momento”.
Guardo Agnieszka giocare e mi accorgo, quasi per sbaglio, di quanto sia tremendamente diversa. Una sorta di narciso ed elegante fenicottero, consapevole delle proprie anacronistiche qualità. Femminile come nessuna, entra in campo dotata di borsetta, rigorosamente poggiata a lato del borsone e, con compostezza, scende in campo. Uno stile inesistente, costruito su angoli raggiunti con mestiere. La Radwanska, in un mondo dominato da scriteriate padellatrici che mirano senza ritegno fagiani immaginari, tesse le proprie trame ricamando accelerazioni lente, il vero tocco di classe nel gioco della polacca, rendendosi così, a dispetto di quanto molti sostengano da anni, la più grande giocatrice d’attacco del panorama attuale.
Troppo orgogliosa, lei, per rendersi atleta abbandonando la donna.
Una vita destinata ad incantare senza mai raggiungere pienamente l’acme del successo. Sarà destino, o cattiveria. La migliore nel giocare a tennis costretta a soccombere, con garbo, alle sue ottuse colleghe. Una vita di talento e privazioni.

Una vita da Agnieszka Radwanska.

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