Il crollo di Murray nella finale degli Australian Open

Se quella del Djoker era una tattica sicuramente ha funzionato. E’ riuscito a tirar fuori l’irritabilità dello scozzese, che ha lasciato a sua volta il match nelle sue mani.

Chiunque abbia dubbi sullo stato mentale di Murray nelle occasioni cruciali si riguardi l’ultima ora della finale dell’Australian Open. Per un’ora e mezza nei primi due set non c’è stata praticamente alcuna differenza fra Andy Murray ed il n°1 del mondo Novak Djokovic.

I primi due set si sono infatti risolti con due tie-break. Ma quando nel terzo set Djokovic ha messo avanti il naso nel match facendo il break e avanzando 2-0, Murray ha cominciato a perdere lucidità. Djokovic lo ha irritato col linguaggio del corpo, a dire di Murray “simulando” dei crampi che poi sono inspiegabilmente spariti, così Andy ha perso la testa ed è riuscito a vincere ancora solo un game nel testa a testa di un match che nell’ultimo set ha assunto addirittura sfumature grottesche.

Il comportamento del campione 2015 era anche abbastanza prevedibile: non era infatti la prima volta che Djokovic accusava supposti problemi fisici o cali di energia in campo, tanto che il mondo del tennis gli ha dedicato addirittura la scherzosa frase di “Rope-a-Djoke” riferito alla tattica del pugile Muhammad Ali di rimescolare le carte a suo favore detta “Rumble in the jungle”(lett. lamentarsi nella giungla).
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E anche Murray lo sapeva, dice che ha cercato di sedare il vulcano che aveva dentro dicendosi “ Non curarti di lui, lo fa tutte le volte!” e molte altre cose, alcune irripetibili qui. Se quella del Djoker era una tattica, sicuramente ha funzionato. E’ riuscito a tirar fuori l’irritabilità dello scozzese, che ha lasciato a sua volta il match nelle sue mani. Murray ha sempre avuto un carattere irascibile ma, mentre quando aveva 19 anni le sue invettive attiravano l’attenzione ed erano considerate segno di immaturità, a 27 anni e al suo attuale livello questo crollo mentale è  imperdonabile e decisamente poco professionale.

E’ difficile pensare ad altri crolli mentali simili nella storia del tennis. Forse l’invettiva della Hingis per una riga chiamata nel match contro Steffi Graf  nel 1999 al Roland Garros o sempre all’Open di Francia nel 2004, quando Guillermo Coria contro Gaston Gaudio, dal nervoso si fece venire i crampi e, già avanti due set, agonizzante riuscì a perdere la partita.

Se Murray vuole vincere più Slam, come è probabile, dovrebbe ammettere la sua debolezza mentale e considerarla come un problema.
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Pat Cash nel suo commento alla BBC-radio aveva certo ragione quando ha detto che  se vuole diventare un grande giocatore non deve sottovalutare ciò che è accaduto e capire perché ha avuto il crollo mentale.

Ciò che è ancora più frustrante per i fans di Murray, e forse anche per lui, è che Lendl sembrava aver risolto il problema di questi episodi, come dicevano molti opinionisti durante la finale di domenica.

E l’ironia della sorte è che proprio Amelie Mauresmo, che solo 72 ore prima era stata lodata da Murray, non ha saputo gestire questo aspetto opprimente del carattere dello scozzese. Per questo motivo sono infatti arrivati molti attacchi all’ex giocatrice francese e al team di Murray, nel quale manca evidentemente un coach mentale che lo metta in contatto con le sue emozioni in modo efficace.
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Anche John Mc Enroe era un iracondo, però le sceneggiate che faceva in campo aiutavano il suo tennis, mandando invece in confusione gli avversari e addirittura il giovane Roger Federer era noto come un distruttore di racchette quando le cose andavano male, ma ora basta, ha imparato a gestire le emozioni in campo.

Un’altra  delle peggiori teste calde del tennis fu  Marat Safin. Il russo ha infatti vinto due titoli Slam, come Murray, ma molti concordano che il suo aspetto mentale non gli ha mai consentito di più.

Speriamo che Murray impari a controllarsi, perché altrimenti rischia di buttare via altre opportunità pur avendo doti tennistiche ai più alti livelli. Speriamo che valutando e studiando questi suoi illustri colleghi cerchi di ovviare a quest’ultima debolezza del suo gioco, per non diventare a sua volta un esempio negativo per le prossime generazioni.

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