Elogio alla bruttezza di Alexander Dolgopolov

Come di consueto, la mia mente, disturbata, crea straordinari paragoni. Dolgopolov, irrequieto, mi appare come libellula esagitata, che colpisce ad occhi chiusi con guizzi ed isterici spasmi.

Non ho mai tifato Dolgopolov, neanche per sbaglio. Ad essere realmente sincero, non ho nemmeno mai compreso l’infinita distesa di appassionati che ne lodano le gesta, definendolo solitario paladino del bel tennis ed angelico interprete dal superbo talento.
A questa curiosa definizione, troppo spesso affibbiata con estrema nonchalance, ho sempre associato soltanto Dustin Brown, brillante gioiello fortunatamente unico nel suo genere.
Nonostante questa premessa stracolma di pregiudizi, ho saggiamente scelto di guardare, dall’inizio alla fine, la finale del torneo di Buenos Aires, ATP 250 che si svolge sulla lenta ed assolata terra rossa, convinto come non mai che Kei Nishikori, insolito partecipante di questo appuntamento, sarebbe stato soffocato dalle inconcepibili variazioni dell’ucraino, mai così in forma come nella lunga settimana argentina. Ed è infatti un assolo anacronistico quello di Dolgopolov, che traccia inspiegabili geometrie da ogni angolo del campo.
Mettendo da parte un naturale senso di ripulsione nei confronti dei suoi scoordinati fondamentali, provavo a studiarne i movimenti, cercando un’inesistente logica in quella che sembrava un’attenta e studiata trama letale.
Dopo quasi un’ora di attenta analisi i miei occhi iniziavano ad incrociarsi, facendomi vagamente assomigliare a quel Novak Djokovic piallato da Wawrinka nella storica finale parigina del 2015. Non capivo più nulla ed il mio cervello, scriteriato, era ormai in solenne adorazione del codino impazzito, che continuava ad inventare azzardate soluzioni spesso imprevedibili anche per se stesso.
Come di consueto, la mia mente, disturbata, crea straordinari paragoni.
Dolgopolov, irrequieto, mi appare come libellula esagitata, che colpisce ad occhi chiusi con guizzi ed isterici spasmi.
Servizio zampettato, si contrae e si aggroviglia con ritmo frenetico, costringendo il nipponico avversario ad una asfissiante tattica insopportabile, troppo convulsa per poter essere supportata dal banale piano di gioco del Nishikori pallettaro che si incarna sul rosso.
Vince quindi un torneo dopo quattro anni di golosa astinenza, portando in trionfo la sua orrifica coroncina, palese simbolo di un principino incompreso e tennisticamente drogato.
Sarà la sua rinascita? Ovviamente no.
Perché, genio e sregolatezza (lui sì, non Fognini), vincerà con un top 10 perdendo il giorno dopo, in due facili set, contro un friggitore di gamberi greco.
D’altronde, se così non fosse, non staremmo parlando di Dolgopolov.
Giusto?

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