La bellezza dell’inaspettato

Quella tra Sock e Krajinovic finisce non soltanto per essere la finale di un 1000, ma lo scontro metonimico tra due ideologie e concezioni del tennis differenti: l’americana e la serba.

Ultimo Master 1000 dell’anno, flauti dolci che suonano armonie malinconiche e arpe scordate dedite all’intonazione di elogi funesti ai due finalisti di questo torneo.
Jack Sock sfida Filip Krajinović, in un ultimo match atteso da nessuno e per questo colmo di celato fascino.
Sia chiaro, le sfide tra Nadal e Federer piacciono a tutti, ma dopo un pò stancano (lo scrivo mettendomi al riparo dalla virtuale lapidazione che i due folti gruppi di tifosi, di cui anch’io faccio parte, inizieranno in questo spazio virtuale).
La storia e le pressioni che i due, all’ingresso in campo, si portano sulle spalle, sono diametralmente opposte. Il serbo senza nulla da perdere, l’americano inaspettatamente favorito in una finale di tale calibro, giocandosi, in una volta sola, la conquista di un primo 1000, l’ingresso in top 10 e la qualificazione alle ATP Finals.
I due, potenzialmente così distanti, si equivalgono sul campo per i primi due set. Nel parziale decisivo, durante il terzo game, due passanti consecutivi consegnano all’americano la partita e la gloria. Il primo, sul 30-30, di rovescio, uno splendido lungolinea tirato su di solo polso sinistro dopo un attacco incrociato del serbo, il secondo di dritto, in corsa. Splendidi e letali, entrambi, evidente dimostrazione di chi, nei momenti che contano, sia più forte tra i due. Un nuovo passante di dritto per sigillare il doppio break ed il match. Schiena a terra, commozione ed un sorriso enorme, Sock vince il titolo più prestigioso in carriera.
La bellezza dell’inaspettato è qualcosa di etereo, perché spesso, per il suo proprio carattere di imprevedibilità, irreplicabile. L’inaspettato è capace, come nient’altro, di raccontare storie inusuali e portare alla luce episodi esoterici, dei quali in pochi sono a conoscenza.
Uno di questi è che il rovescio di Filip Krajinovic sia un piccolo gioiello silenzioso, migliore, pur racchiuso nel corpo di un ragazzo che ad inizio anno faticava a restare tra i primi trecento giocatori al mondo, di quello messo in mostra da svariati top 20.
È la scuola serba che così sapientemente insegna questo colpo. Da Tipsarevic a Troicki allo splendido Djokovic. Tutti i grandi giocatori della nazione ferita dalla guerra civile possiedono in dote un’arma di elevato spessore.
Quella tra Sock e Krajinovic finisce non soltanto per essere la finale di un 1000, ma lo scontro metonimico tra due ideologie e concezioni del tennis differenti: l’americana e la serba.
Stelle e strisce da una parte, attaccate come dogma inscalfibile allo schema servizio e dritto al quale tutti i discepoli aderiscono. Due botte, spaventose ed inavvicinabili, che servono a nascondere la ben più modesta attenzione che si pone sui restanti fondamentali.
Dall’altra, invece, una nazione nuova, che confina con la Croazia pur differenziandone totalmente. Non c’è, nella mente dei serbi, l’idea di sviluppare un servizio potente con il quale poter chiudere subito il punto. Si insegna la pazienza, lo scambio lungo ed il rovescio bimane sul quale poggiare il proprio corpo, senza eccedere in potenza e fantasia, controllando il più possibile gli sviluppi di ogni sfida.
L’inaspettato ci ha reso partecipi di una storia nuova, inedita ed inaudita.
L’inaspettato ci ha sì privati del mediatico clamore che Federer o Nadal avrebbero portato, ma ci ha al contempo insegnato ad osservare una realtà diversa.
L’inaspettato, oggi, premia Sock, domani chissà.
Ed è per questo bellissimo.

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