Wawrinka, Roma e un Rovescio

Un intenso “oooh” accompagnò sottobraccio il potente rovescio lungolinea di Wawrinka. Sentivo sulla pelle la pesantezza di quella palla. Il suono, violento, rimbombava con ferocia.

Il 15 Maggio 2014, al Foro Italico, faceva un gran caldo.
Mi trovavo sul Pietrangeli con la fronte martoriata dal sole cocente, affiancato da sudaticci individui urlanti, guardando con infinta compassione la povera Sara Errani presa a pallate dall’insipida Cetkovska (poi battuta dopo oltre due ore di intermittente attenzione). Devo essere sincero, l’idea di autoindurmi uno stato catalettico mi passò più volte per la testa.
Decisi quindi di spostarmi sul centrale, dove, a minuti, sarebbe entrato Stan Wawrinka, fresco vincitore di un Australian Open, seguito qualche mese prima da una Londra grigia e piovosa.
Lo svizzero, numero 3 del mondo, affrontava il tedesco Tommy Haas, per il quale provavo un segreto debole tennistico.
Qualche palleggio di riscaldamento, un paio di servizi controllati.
“Time, Mr Wawrinka to serve”.
Non era esattamente ciò che mi sarei aspettato. Ritmo basso, qualche errore, tanta attesa. Il gabbiano Peppino, appollaiatosi sul grande schermo che mostrava il punteggio, stava per passare a miglior vita.
Dall’alto, come lamento di anima infernale, sentii mormorare: “Quasi quasi rimpiango l’Errani”.
Soltanto che, quando tra il torpore generale ed un incessante e ripetitivo “pif-pof” i miei occhi stavano per chiudersi, successe.
Lo ricordo ancora oggi, limpido e cristallino.
“Stoc”. Alzai la testa, era lui.
Diecimila persone, in idilliaca simbiosi con me, lasciarono uscire dalla loro bocca un leggero gemito di stupore.
Un intenso “oooh” accompagnò sottobraccio il potente rovescio lungolinea di Wawrinka.
Sentivo sulla pelle la pesantezza di quella palla. Il suono, violento, rimbombava con ferocia.
Quel colpo, che dal mio televisore guastavo per l’estetica perfetta, mi aveva appena colpito.
Faceva male, non solo al povero Haas, costretto ad un’inutile e disperata rincorsa, ma a tutti noi, apparentemente plastici e rigidamente seduti, in realtà trafitti da quel tuono imperioso, piombato sul campo senza alcun preavviso.
Stan perse, ma non ne fui sorpreso.
Il gabbiano Peppino, ora libratosi in volo, mi guardava dell’alto, ed io ero felice.
In un caldo pomeriggio romano avevo assistito alla rivelazione, e tutto, al confronto, aveva perso importanza.

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