È tutta una questione di pressione

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Tra le leggende popolari, ne esiste una che da sempre mi ha sempre affascinato. Si narra che i campioni si nutrano di pressione, ansia, tensione. Si dice anche che un uomo, per diventare immortale, debba obbligatoriamente dimostrare di avere le capacità per sfidare, da solo, il mondo, uscendone vittorioso. Salire alla ribalta nel circuito maggiore, direzionarsi addosso tutti i riflettori, iniziare, spesso dal nulla, a far parlare di sé.

Un gigantesco turbine di prospettive dorate circonda e fascia la testa, che tutt’a un tratto inizia a farsi più pesante. Ho sentito parlare di un giovane promettente in rampa di lancio, l’ho visto giocare qualche settimana fa. Tra gli spalti, invasi prepotentemente da un subdolo vento autunnale, il pubblico, sempre più numeroso, parla di lui come il nuovo numero uno. Si vocifera sommessamente, evidenziando il suo palese talento, analizzando le doti tecniche e fisiche, lodando la sua perfetta scelta di tempo sulla palla. Lo osservo da un angolo cercando di non amalgarmi con la folla. Lui li sente, sente tutto ciò che stanno dicendo. Non ha bisogno di concentrarsi sulla partita, è troppo più forte del suo noioso e monotono avversario, che finirà per liquidare con un doppio 6-2. Esce dal campo senza sorridere e l’orda di spettatori lo sommerge di complimenti. “Bravo ragazzo, complimenti”, “Quest’anno il torneo è tuo”, “Il tuo prossimo avversario non ha speranze”.

Li ascolta uno ad uno, liquidandoli cortesemente con banali frasi di circostanza. Si siede su un muretto, tenendosi la testa tra le mani. Per un attimo, uno soltanto, maledice con rabbia colui che, in quel braccio, gli ha infuso quel talento, quel maledetto talento. Il giorno seguente, alle 15, scende di nuovo in campo per giocare la finale o, come dicono in molti, per vincere il torneo. Non c’è storia, come il giorno precedente. Stavolta però, il punteggio, così severo, lo relega al ruolo di sconfitto per 6-4 6-1. Dà la mano, saluta il pubblico e scappa. Ventiquattro ore dopo è di nuovo seduto sopra quel muretto che adesso appare così scomodo.

Mi avvicino per scambiare due parole. Mi guarda, in lacrime, e sussurra “lo sapevo, questo non è il mio sport, non lo è mai stato. Non sono in grado di gestire la pressione, di rendere giustizia al mio potenziale. Questo è soltanto un altro dei miei fallimenti, non cambierò mai”. Attraverso i suoi occhi intravedo nitidamente il peso troppo grande di quelle aspettative su di lui riposte che, lente ma inesorabili, continuano a schiacciarlo. È tutta una questione di pressione, ovviamente. E se il numero 1 spontaneamente fa outing dichiarando di non riuscire a gestirla, possiamo soltanto immaginare quale forza prepotente e insidiosa possa avere. Ma d’altronde, questa è solo una leggenda, giusto?

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