Per molti, Emil Ruusuvuori era il volto di una nuova promessa del tennis: elegante, determinato, in ascesa. Nell’aprile del 2023 aveva toccato il suo best ranking, il numero 37 del mondo, eppure dietro i successi si nascondeva un malessere profondo. Oggi, con il coraggio che solo chi ha toccato il fondo può mostrare, Ruusuvuori ha deciso di raccontare pubblicamente la sua battaglia contro i disturbi di salute mentale, un’ombra silenziosa che lo ha portato a fermarsi completamente per oltre quattro mesi.
Il primo campanello d’allarme suonò tre anni fa, a Miami, quando un attacco di panico improvviso lo colse al risveglio: “Era come se qualcuno mi stesse strangolando, impossibile respirare, la mente in tilt con un milione di pensieri”. Nonostante la crisi, Ruusuvuori riuscì incredibilmente a scendere in campo e battere Maxime Cressy, spingendosi poi fino a un combattutissimo match contro Jannik Sinner, portato al terzo set. “Nessuno sapeva cosa stessi vivendo”, ha raccontato. Una frase che sintetizza la doppia vita di un atleta: vincente all’esterno, ma fragile dentro.
Il punto di rottura, però, arrivò l’estate successiva. Durante Wimbledon, Ruusuvuori dovette fermarsi con l’auto per scendere e cercare di respirare: “Pensavo di svenire. Poi, durante il match con Mpetshi Perricard, ho solo desiderato correre fuori dal campo”. Era uno dei tornei dei suoi sogni, ma in quel momento il campo da tennis era diventato una prigione.
Il crollo mentale non si limitò alla competizione. Persino guidare o dormire diventava difficile. Gli incubi lo svegliavano in preda al panico, il cuore impazzito, il respiro corto. A Washington, mentre batteva Coric in tre set, l’unica cosa che desiderava era uscire da quella situazione. “Sul match point ho pensato se fosse il caso di fare un doppio fallo per uscire da lì”, ha confessato.
Poi la rinuncia a Montreal, ufficialmente per un’influenza intestinale. In realtà, “era la mia testa il vero problema”. Emil sprofondava. Non toccò una racchetta per quattro mesi e mezzo, un vuoto totale dopo dieci anni di routine scandita da viaggi, allenamenti e tornei. “Non provavo più gioia per nulla. A volte pensavo se avesse ancora senso vivere”. La situazione divenne talmente grave che non riusciva nemmeno ad avvicinarsi a un campo da tennis in Finlandia: temeva le domande, temeva di non avere risposte.
La risalita è stata lenta e faticosa. Il padel, per esempio, è stato un rifugio temporaneo: “Durante quelle due ore, non pensavo ad altro”. A quel punto ha deciso di parlarne: con lo psicologo, con gli amici, con la famiglia. Un suo caro amico aveva vissuto un’esperienza simile e quell’empatia lo aiutò a sentirsi meno solo. È nata così l’idea di raccontare tutto in un video in finlandese, condiviso all’inizio del 2025. “È stato come liberarmi di un peso. Non riuscivo più a fingere”.
L’accoglienza è stata sorprendente: messaggi da persone comuni, da professionisti, da sconosciuti. Tutti toccati dal suo coraggio. “Molti hanno detto che li ha aiutati, e questo ha significato tanto per me”, dice.
Il ritorno in campo è avvenuto a febbraio, in un Challenger a Tenerife. “Il primo match è stato orribile. Il secondo un po’ meglio. Ma da allora ci sono stati ancora alti e bassi”. In Corea del Sud ha avuto uno dei peggiori attacchi di panico mai vissuti: “Il mio cuore andava a 100 battiti al minuto da seduto, mentre il mio battito a riposo è 37. Ma oggi ho più strumenti per calmarmi”.
Il cambiamento più grande, oggi, è nella sua percezione del successo e del fallimento. “Se non voglio essere in campo, non mi forzo. Lo sport è una lotta, ma devi sentire uno scopo. Una passione”. Per troppo tempo, Ruusuvuori ha associato la vulnerabilità alla debolezza, convinto che parlarne significasse non essere all’altezza. Ora ha capito l’opposto.
Il messaggio che lascia è chiaro: “Va bene avere una brutta giornata. Va bene essere tristi. Ma ricordate: i momenti difficili non durano per sempre”. Il tennis ha formato Emil come atleta, ma è il dolore che lo ha reso più consapevole come uomo.
Ora, il suo obiettivo non è più solo scalare la classifica, ma “fare in modo che la mia storia aiuti anche solo una persona. Allora ne sarà valsa la pena”.
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