A Houston, lo scorso aprile, Jenson Brooksby ha vissuto una settimana che difficilmente dimenticherà. Partito dalle qualificazioni come wild card, ha salvato match point in ben tre incontri diversi, fino a conquistare il suo primo titolo ATP in carriera. Un successo straordinario, che per lui ha significato molto più di una semplice vittoria sportiva. Era aprile, World Autism Month, e Brooksby ha fatto qualcosa di ancora più importante: si è mostrato al mondo per quello che è davvero.
“Salvare match point era solo un altro ostacolo da superare. Quello che la maggior parte delle persone non sa è che nella mia vita ho dovuto affrontare molto di più di semplici infortuni e partite difficili”, ha raccontato in un’intervista per ATP. A dicembre, infatti, aveva deciso di rompere un silenzio durato tutta la sua vita, rivelando pubblicamente di essere stato diagnosticato con un grave disturbo dello spettro autistico sin da bambino.
Brooksby ha ricevuto la diagnosi a soli quattro anni. Era non verbale e iniziò un percorso intenso di terapia ABA, con 40 ore settimanali di lavoro terapeutico. I suoi genitori scelsero fin da subito di non nascondere la diagnosi, nella convinzione che affrontare la realtà fin da piccoli potesse aiutarlo a sviluppare gli strumenti per gestire la propria condizione.
Nel tempo, ha dovuto affrontare numerosi ostacoli sociali. A scuola era introverso, faceva fatica a stringere amicizie e spesso percepiva il giudizio degli altri anche senza che fosse esplicitato. Ma è proprio grazie a questa straordinaria capacità di concentrazione – tipica di molti individui nello spettro – che ha sviluppato un amore profondo per il tennis: “Potevo colpire una palla contro la porta del garage per un’ora intera senza annoiarmi. Non solo riuscivo a concentrarmi, ma mi divertivo davvero”.
La strada di Brooksby verso l’élite del tennis è stata tutt’altro che lineare. Dopo essere stato fermo per 14 mesi a causa di infortuni a piede e braccio, nel 2022 era riuscito a raggiungere il suo best ranking: numero 33 al mondo. Poi, una nuova spirale negativa lo ha travolto: ulteriori problemi fisici, una squalifica per aver saltato tre controlli antidoping, e infine l’uscita dal ranking ATP.
Tutto questo mentre conviveva con un peso interiore che aveva sempre tenuto nascosto. La decisione di aprirsi con il pubblico è maturata nel tempo. Il primo a sapere della sua condizione al di fuori della famiglia è stato il suo agente, durante una cena. La reazione empatica e normale dell’amico è stata decisiva per convincerlo che forse era arrivato il momento di condividere la sua storia.
Rendere pubblica la sua diagnosi ha avuto un impatto immediato. Brooksby ha ricevuto migliaia di messaggi di supporto, da fan e persone nello spettro che si sono riconosciute nel suo percorso. Durante il torneo di Houston, una ragazza lo ha avvicinato: anche lei autistica, gli ha confidato quanto fosse stato significativo vedere qualcuno come lui vincere. “Non ho mai avuto un esempio simile crescendo. Quella conversazione mi ha fatto sorridere come poche altre cose nella mia vita”, ha raccontato.
La consapevolezza di poter essere un punto di riferimento è diventata una nuova missione per l’atleta. “Autismo non è una scusa per arrendersi”, ha detto, riportando anche l’incontro con un genitore che gli ha raccontato quanto i suoi due figli nello spettro ora si sentano motivati a continuare nel loro sport grazie a lui.
Brooksby è perfettamente consapevole che non giocherà per sempre. “C’è molto di più nella vita oltre il tennis”, ha detto. “Penso che essere trasparente sull’autismo mi renda una persona più completa, non solo ora, ma per il resto della mia vita”. Il suo desiderio è quello di continuare a raccontarsi, essere disponibile con chiunque voglia confrontarsi con lui, e offrire la propria esperienza a chi, come lui, ha vissuto nell’incertezza e nella solitudine.
La storia di Jenson Brooksby non è solo quella di un tennista che ha finalmente vinto il suo primo titolo. È la storia di una rinascita personale e pubblica, di un ragazzo che ha avuto il coraggio di mostrare la propria vulnerabilità e trasformarla in forza. Un esempio, dentro e fuori dal campo.
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