Realtà e sogni di un “tennista” che prova a farcela

Nei miei pochi scritti personali, tutti pubblicati grazie a Tennis Circus (di cui non finirò mai di ringraziare l'intera redazione), non ho mai, ovviamente, parlato di me, ma oggi racconterò una storia, la mia, che forse riassume anche quelle di molti giovani aspiranti tennisti

Sveglia, scuola, pranzo, compiti, allenamento, cena, letto. Questa è, schematizzando, la mia giornata tipo: non molto entusiasmante eh? Invece, anche se non sembra, dietro queste poche fasi, si cela un magico fattore che rende le plumbee giornate di un liceale medio un vero tripudio di allegria: no, non sto parlando di sbronze epocali (l’alcol non posso ancora dire di sapere neanche che sapore abbia), abbuffate immani (l’unica eccezione è il tiramisù della nonna) o epocali fughe da scuola (troppo ligio al dovere, ahimé); sto parlando di allenamenti, per l’esattezza 8 o più ore alla settimana, che oscillano tra il tennis e la preparazione atletica. Già, un misero sport, niente di strabiliante, eppure, quando sono in campo e colpisco quella dannata palla, mi sento libero e capace di tutto.

Basso livello significa basso impegno? 

Partendo dal presupposto che non sono un campione nazionale, ma che comunque vanto qualche soddisfazione personale (recente finalista regionale di quarta categoria in Veneto, quarta squadra classificata U16 nel 2016, e, ultima ma non meno importante, una vittoria al terzo set sul Pietrangeli durante il Master “Kinder+Sport” 2016), nessuno può dirmi che il mio livello non eccelso sia motivo e possibile giustificazione di poco impegno.
Insomma, ogni studente può confermarlo, stare a scuola sei giorni alla settimana (aggiungendo poi le ore di studio casalinghe e le notti insonni causate da verifiche oltremodo spaventose) è già un impegno non da poco, se a questo si aggiungono ore e ore in campo a perfezionare la tecnica e la tattica e in palestra per essere davvero efficienti in campo, le ore di impegno salgono vertiginosamente.

Perennemente di corsa: sfide quotidiane di un sedicenne che vuole allenarsi
La noiosa routine citata in apertura è in realtà uno scrigno comprendente molte sfaccettature: la sveglia, nata per traumatizzare ogni singolo essere vivente già di prima mattina, diventa un’acerrima nemica del dovuto riposo, la scuola diventa, anche, luogo perfetto per degli sporadici sonnellini (e uno che da sempre sta in ultima fila lo sa bene), il “pranzo” è un’abbreviazione del “mangia qualcosa, ma di fretta che c’è allenamento” di una mamma che ancora deve accompagnarmi ad allenamento data la mia giovine età, infine, la cena e il riposo si fondono in un unico stato di profonda stanchezza.
Detta così, sembra una tragedia quasi grottesca, ma tutti questi “sforzi” (perché, ovviamente, nella vita ci sono periodi molto peggiori) non sono altro che parte di un lungo circolo: gli sforzi diventano successi, i successi alzano l’asticella dell’impegno, il che porta a nuovi sforzi per migliorare, e così via all’infinito. Ma se si ha un Motore Immobile, Aristotele mi permetta la citazione, quale la passione, oltre che dei parenti disposti ad accompagnarti (perché 40 chilometri tra andata e ritorno sono lunghi da fare a piedi), di certo gli sforzi non ti spezzano e i successi ti esaltano.

Allenamenti e tornei: quello che davvero interessa ad un “giocatore”

Sono fermamente convinto che una delle sensazioni più belle che si possano sperimentare sia quella di tornare in campo il giorno una partita persa e dirsi “Bene, ricominciamo da capo”. Esatto, trovare l’ingranaggio che il giorno prima non ha funzionato e sistemarlo, questo fa sentire bene; è facile crogiolarsi nelle vittorie, ma è dopo aver smaltito l’ingente quantità di rabbia post-sconfitta che si compiono i veri miglioramenti. E allora via, pallina dopo pallina, a rivedere l’impatto, l’angolo di mano e racchetta, la posizione dei piedi, il movimento di anca e spalle e chi più ne ha più ne metta. Mi piace immaginare ogni movimento come un vetro: inizia come lucido, ma poi si sporca e bisogna faticare (oltre che arrabbiarsi tanto) per ripulirlo del tutto, sapendo che poi si sporcherà di nuovo, e così all’infinito.
Tutti questi sforzi, ovviamente, non sono fini alla sola estetica: è la capacità di usare al meglio i propri strumenti, e quindi la competizione, che rende davvero bello praticare uno sport. Nel tennis, quella competizione è definita come “Torneo”. Se guardiamo in proporzione, la stagione di un tennista professionista e quella di uno del mio livello non sono così lontane: i lunghi viaggi in aereo dei rinomati campioni diventano lunghe chiacchierate in macchina intervallate da karaoke che per fortuna nessun’altro sente, e i grandi centri con tanto di stand commerciali oltre che imponenti stadi si trasformano in realtà locali, dalle più ricche ai semplici circoli di campagna, dove però ognuno si sente un po’ a Wimbledon se arriva in finale.
Anche il funzionamento è più o meno lo stesso: eliminazione diretta con crescita dei montepremi (nelle rare eccezioni in cui c’è montepremi) più si avanza nel tabellone. Ma il bello dei tornei non è il raggiungere la finale, né il vincere dei soldi (anche perché si sarebbe costantemente delusi), ma lo sfidarsi, il mettersi alla prova, battere un avversario sfidato mesi o anni prima, vedere che il lavoro frutta: solo quando si capisce che si gioca per questi motivi e non per collezionare trofei si può capire perché si passa tutto quel tempo a faticare in campo.

La partita: prima, durante e dopo

Partendo dal presupposto che ogni circolo in cui si gioca ha le proprie particolarità, e non si sa mai cosa si troverà, ci sono degli elementi comuni ad ogni torneo: ad esempio, tutto il processo burocratico prima di poter giocare, che inizia con l’iscrizione, da inviare via mail entro il mercoledì della settimana precedente (e che spesso fa urlare un “Diavolo mi sono dimenticato di iscrivermi” il giovedì mattina), continua con l’iscrizione (ovviamente da pagare e a carico del giocatore) e si conclude con il “siamo in ritardo, il primo campo che si libera è il vostro” che ogni giocatore si è sentito dire almeno una volta a torneo.
Prima di iniziare la partita c’è, ovviamente, il riscaldamento: il regolamento parla di 5 minuti, ma chiunque abbia visto anche solo una sola partita non professionistica, sa che la fatidica frase “provo gli ultimi due servizi” significa invece “tranquillo, staremo qua altri due o tre minuti”. Dopo il richiamo del Giudice Arbitro, ormai parte del copione, si procede a giocare: attenzione, non ci sono giudici di sedia, linea o raccattapalle, perciò all’ordine del giorno ci sono anche contestazioni sui segni (“Lo so che era dentro, non provare ad imbrogliarmi”) dato dalla stragrande maggioranza dei campi in terra rossa rispetto a quelli in cemento o sintetico, e proteste date dal tempo a prepararsi per un punto (“Ovvio, proprio la pallina più in fondo doveva andare a prendere, continua pure a prendere tempo”).
Concluso l’incontro, nella speranza di non dover continuare in spogliatoio le discussione scaturite in campo, si procede a dare il risultato al Giudice Arbitro: incaricato di ciò è il vincitore, riconoscibile, oltre che dal sorriso sornione, dal simbolico gesto di portare le palline appena usate all’interno del circolo (o almeno, nel 99% dei casi succede questo). Infine, c’è il drammatico momento del “A che ora gioco domani giudice?”: dopo lunghe discussioni e incastri di orari si riesce a decidere un’orario che rende più o meno felici i contendenti, e si può definire finalmente conclusa la questione della data partita. Molto più complesso di quanto non sembri, no?

Sogni e aspirazioni di uno che ci prova

Avevo detto che avrei parlato di me, e quindi sono qua, pronto ad aprire il proverbiale cassetto, per far uscire i miei sogni. Sin da quando ho iniziato, cioè ad 8 anni, ho sempre saputo che non sarei diventato un grande campione, ma stare in campo mi piaceva, mi divertivo e facevo amicizia. Col passare degli anni, sono cambiati gli obbiettivi per cui giocavo: se prima era per non stare a casa tutto il pomeriggio davanti alla TV, iniziavo ad avere la voglia di mettermi in gioco, di vedere come giocavano quelli fuori dal mio circolo. Per migliorare mi sono spostato, spostandomi dal tennis club a due minuti da casa ad uno a mezz’ora di strada, consapevole di cosa avrebbe comportato per i miei altri impegni. Ormai sono 9 anni che gioco, e non rimpiango nulla di quello che ho fatto in questo ambito, ho raggiunto obbiettivi che, nonostante non siano eccelsi, mai avrei immaginato quando ho iniziato. La mia vita, però, rimane quella di sempre, ma sono consapevole dei miei mezzi: so a cosa posso puntare e so che, se ci lavoro, posso raggiungere ogni mio obbiettivo. 
Non sono una persona a cui piace sognare: sono colpevolmente maniaco del controllo, e non voglio lasciar la mia mente vagare nel rischio di essere inconcludente. Eppure, tutti noi abbiamo almeno un desiderio che vorremmo vederci avverato: ebbene, se dovessi sceglierne uno, penso che una giornata con Roger Federer sbaragli la concorrenza, anche se giocare una partita sul famoso Centre Court di Wimbledon non mi dispiacerebbe affatto.

Ringraziamenti finali

Lo so, lo so, non è un libro, ma un semplice articolo, eppure per me significa tanto e sento quindi il bisogno di ringraziare un po’ di persone che purtroppo non sempre ringrazio:

ai miei genitori e mia nonna, per avermi sempre supportato, sia nella materialità sia asciugandomi le lacrime nei momenti di massima tristezza o delusione;

a mio fratello, per avermi spronato a prendere in mano la racchetta da tennis, oltre che per essere stato da sempre un esempio da seguire e avermi fatto tornare con i piedi per terra quando necessario;

a Michele, Simone, Giulia e a tutta la redazione di Tennis Circus, per avermi introdotto e fatto crescere in questo ambito, sopportando improvvisi cambi di disponibilità e problematiche varie;

infine, grazie a tutti voi, lettori, che contribuite a far crescere la pagina e avete avuto voglia di leggere la mia breve storia, i miei pensieri e i miei sogni.

 

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