[tps_title]Vittorie inattese[/tps_title]
A dispetto della superficie, divenuta insolita e piuttosto elitaria nel tennis dell’era open, Wimbledon è il major in cui storicamente si registrano meno sorprese. Per averne conferma è sufficiente scorrere l’albo d’oro delle ultime 49 edizioni (cioè dal 1968) e osservare che solo 7 volte nel singolare maschile e 9 in quello femminile il titolo è finito tra le mani di un giocatore (o giocatrice) non compreso tra le prime quattro teste di serie. Non solo: in mezzo secolo di storia, ai Championships solo quattro maschi (Cash, Stich, Krajicek e Ivanisevic) e altrettante femmine (Martinez, Novotna, Bartoli e Kvitova) hanno vinto il loro unico titolo dello slam (la ceca due volte, peraltro).
Anche se Wimbledon è il torneo in cui un qualificato può spingersi fino alle semifinali (successe a McEnroe, Voltchkov e alla Stevenson), sui prati della regina nessuna donna non compresa tra le teste di serie ha mai raggiunto la finale e solo 7 uomini ci sono riusciti, di cui ben 3 (Boris Becker nel 1985, Richard Krajicek nel 1996 e Goran Ivanisevic nel 2001) l’hanno poi vinta (gli altri sono Lewis, Pioline, Washington e Philippoussis).
Detto questo, non sono mancate le eccezioni alla regola e in questo articolo abbiamo provato a individuare quelle che secondo il nostro parere sono state le sorprese più eclatanti dell’era Open. Eccole in ordine temporale.
[tps_title]Il neozelandese che non ti aspetti [/tps_title]
Classificato attorno alla 60esima posizione mondiale nell’ultimo ranking emesso, Chris Lewis prende parte al suo settimo Wimbledon con pochissime aspettative. Pur essendo in teoria un tennista da erba, la sua settima partecipazione al torneo inglese parte con prospettive assai modeste, come modesto è il record nel torneo (5-6) per il 26enne nativo di Auckland. Il sorteggio non è del tutto malevolo per Lewis, che finisce nel quarto di tabellone in cui le teste di serie più importanti sono Vilas (4) e Gottfried (13), oltre all’americano Steve Denton (9), che è proprio l’avversario di primo turno. Lewis lo batte 6-3 al quinto e subito il successo gli apre una piccola autostrada: il qualificato Dyke al secondo turno, Mike Bauer al terzo e addirittura il nigeriano Odizor negli ottavi. Gli ultimi otto rimasti in gara non sono equamente disposti nel tabellone e la semifinale della parte bassa tra Ivan Lendl e John McEnroe diventa una finale anticipata. Così, nella parte alta si lotta per il privilegio di disputare l’ultimo atto della recita tennistica più importante al mondo. Chris, sempre più fiducioso, si impone a Mel Purcell in quattro set ma il vero capolavoro lo compie in semifinale dove viene a capo del sudafricano Kevin Curren dopo 63 interminabili giochi: 6-7, 6-4, 7-6, 6-7, 8-6 lo score. Lewis il suo Wimbledon l’ha già vinto e il giorno della finale John McEnroe gli lascia sei giochi, due per set.
[tps_title]Conchita e la decima mancata [/tps_title]
Siamo nel 1994 e la grande favorita del torneo femminile è Steffi Graf. La tedesca ha vinto cinque delle ultime sei edizioni ed è imbattuta da 21 incontri ma al primo turno viene clamorosamente eliminata dalla statunitense Lori McNeil con lo score di 7-5, 7-6. La prematura dipartita della numero 1 apre prospettive interessanti alle altre pretendenti, tra cui un ruolo di primo piano spetta di diritto alla naturalizzata statunitense Martina Navratilova. La cecoslovacca di nascita ha alzato al cielo il Venus Rosewater Dish per ben 9 volte in passato (di cui ben 6 consecutive dal 1982 al 1987) e punta alla decima vittoria. In apparenza non ci sono rivali in grado di poterla impensierire ma le 37 primavere, sia pur a dispetto di una condizione atletica invidiabile, si fanno sentire e Martina è conscia che un’occasione simile non si ripeterà più. Dopo quattro turni superati in scioltezza, la Navratilova cede un set (il primo) all’ex-connazionale Jana Novotna ma nel resto del match le lascia appena un gioco (5-7, 6-0, 6-1); in semifinale la doppista portoricana Gigi Fernandez la impegna in due set equilibrati (6-4, 7-6) e il più sembra fatto. Sì perché l’altra finalista è la spagnola Conchita Martinez, terza scelta del seeding londinese ma atleta più adatta alla terra che ai prati. Tuttavia, in un pomeriggio grigio e afoso, l’iberica “mi ha passato come nessun’altra era riuscita a fare in passato qui” (dichiarerà Martina) spegne il sogno della Navratilova affermandosi in tre set: 6-4, 3-6, 6-3. Conchita vincerà a Wimbledon il suo unico major in carriera mentre Martina non conquisterà mai il decimo sospirato Wimbledon in singolare.
[tps_title]Una finale unica (forse)[/tps_title]
È quella del singolare maschile nell’anno di grazia 1996. In mezzo al settennato targato Pete Sampras, l’unico giocatore in grado di fermare lo statunitense in quel periodo a Wimbledon fu Richard Krajicek. Accadde nei quarti di finale della suddetta edizione e l’olandese si impose in tre partite combattute (7-5, 7-6, 6-4). Il cammino di Krajicek nel torneo fu autoritario, tanto che arrivò in finale con un solo set al passivo (il secondo della sfida di terzo turno contro Brett Steven). Nel frattempo, dalla parte bassa del tabellone emerse uno statunitense di colore che ebbe il grande merito di battere il n°9 Enqvist nei primi giorni di torneo e di recuperare da 1-2 sotto sia il quarto con Radulescu che, soprattutto, la semifinale con Todd Martin (10-8 al quinto). Quella tra Krajicek e MaliVai Washington (preceduta dalla passerella di una spettatrice che ebbe la bella idea di balzare in campo completamente nuda) fu la sola finale della storia del torneo in cui non erano presenti teste di serie anche se, in realtà, all’olandese era stata attribuita la n°17 (quando ancora però il seeding era limitato a 16) dopo il ritiro di Thomas Muster. In ogni caso, Krajicek dispose senza patemi di Washington e mise in bacheca l’unico major della sua peraltro brillante carriera.
[tps_title]Le (quattro) mani sul trofeo[/tps_title]
Sono quelle della francese Marion Bartoli, che già ci aveva provato senza fortuna sei anni prima in quella che era stata la prima finale nella storia del singolare femminile senza teste di serie “nobili”. Nel 2007 infatti, Venus Williams era n°23 e la francese n°18 e ciò in virtù dell’introduzione (dal 2001) del seeding. Sei anni più tardi (2013) la transalpina si trovò nuovamente di fronte la n°23 e, forse anche per via del suo strano modo di interpretare il tennis, ancora una volta i favori del pronostico erano per la sua avversaria. Soprattutto perché Sabine Lisicki aveva eliminato negli ottavi la detentrice del trofeo (Serena Williams) ed era sopravvissuta in semifinale alla maratona contro la polacca Radwanska, battuta 9-7 al terzo. Dal canto suo, Marion aveva trovato la strada in discesa grazie all’eliminazione precoce della Sharapova (battuta dalla Larcher de Brito) e due avversarie non impossibili negli ultimi turni (Stephens e Flipkens). Tuttavia, l’emozione giocò un brutto scherzo alla Lisicki che disputò una finale in totale apnea ed ebbe una sola chance di invertirne la rotta quando, sotto 6-1, 5-1 e dopo aver pianto in campo dopo l’ennesimo errore, annullò tre match-point e si portò sul 4-5; ma lì la Bartoli conservò la giusta freddezza e chiuse a zero il game alla battuta che incoronò la quadrumane regina dei Championships.
[tps_title]… Meglio tardi che mai[/tps_title]
Si è giocata di lunedì la finale più imprevedibile nella storia del torneo maschile. Nel 2001, con gli spalti gremiti di un pubblico diverso da quello solito (i biglietti vennero messi in vendita e acquistati in gran parte da giovani), si affrontarono Pat Rafter e Goran Ivanisevic. Beh, vi domanderete: dove sta la sorpresa? L’australiano era alla sua seconda finale consecutiva, dopo quella persa con Sampras, mentre il croato era addirittura alla quarta! Eppure, proprio la presenza di “Crazy” Goran fu motivo di enorme sensazione in quanto Ivanisevic venne ammesso al tabellone principale grazie a una wild-card, dato che con il suo ranking (n°125 del mondo) avrebbe potuto al massimo aspirare a giocare le qualificazioni. Ex numero 2 del mondo (nel lontano 1994), Ivanisevic proveniva da una stagione orribile e le qualificazioni le aveva già tentate (invano) agli Australian Open. Per racimolare qualche punto era perfino sceso nel circuito challenger (sconfitto a Heilbronn in finale da Llodra) ma per il resto erano state sconfitte su sconfitte, compresa quella di due settimane prima al Queen’s contro l’italiano Caratti. Lungimiranti (o fortunati) gli organizzatori di Wimbledon, che gli concessero la wild-card per il suo ruolino nel torneo (44-13 e due semifinali oltre alle tre finali citate). Ed ecco la favola. Tra uno scroscio di pioggia e un’interruzione, Ivanisevic debuttò in scioltezza con Jonsson, regolò in quattro set Moya e Roddick, in tre il pericoloso Rusedski e, nei quarti, il n°3 del mondo Safin (di nuovo al quarto). Ma il vero capolavoro fu quello in semifinale contro il beniamino di casa Tim Henman. Il match durò la bellezza di tre giorni; il venerdì si concluse con il britannico avanti due set a uno, il sabato si giocarono solo parte del quarto (7-6 Ivanisevic) e del quinto mentre la domenica il croato ripartì avanti 3-2, fece il break nell’ottavo gioco e chiuse 6-3. La finale non fu da meno in quanto a emozioni: due set per parte e chiusura d’obbligo al quinto, senza tie-break; sul 7-7, Ivanisevic azzecca due gran risposte e strappa la battuta a Rafter che, a sua volta, annullerà tre match-points prima di arrendersi 9-7 al destino.