LA DURA SFIDA DEL CIRCUITO CHALLENGER

Ieri si è concluso, con una bella vittoria di Bolelli, il Challenger di Bergamo. Simone è riuscito, al terzo tentativo, a portare a casa il torneo, dopo le finali del 2006 e 2007. Al di là di questo, resta soprattutto una vittoria importante perché arrivata dopo sette mesi di stop e, in generale un periodo di difficoltà senza fine.

Il torneo di Bergamo non ha solo segnato la ripresa di Bolelli (e speriamo che sia solo l’inizio), ma è stato anche teatro della “quinzimania”, con migliaia di appassionati che si sono accalcati sulle tribune del PalaNorda per veder giocare il giovane italiano (che però, anche per la poca esperienza, ha perso al primo turno contro Henrych). La manifestazione ha ricevuto una buona attenzione da parte dei media e del pubblico, ma forse non è ancora abbastanza.

In realtà i Challenger potrebbero essere molto più valorizzati. Questo vale prima di tutto a livello mondiale. L’Atp ha recentemente alzato il montepremi minimo, ma solo di cinquemila euro. L’Italia poi in particolare ne ospita pochi, ne perde ogni anno. Due se ne giocavano nella capitale: ne è sopravvissuto uno solo. Ancora peggio è andata a Napoli; già da anni la città partenopea aveva perso un importante appuntamento, che si svolgeva in una splendida e rinomata zona della città, a Posillipo. Da quest’anno è sparito anche il torneo che si giocava allo storico T.C. Napoli, nella villa comunale a ridosso del mare.

Eppure, per i veri appassionati, assistere ai match del Challenger Tour e respirare l’aria del circuito, seppur quello minore, è una grande occasione. Si scoprono nuovi talenti, e si ammirano vecchi giocatori. Si sta davvero a contatto con la vita del tennista, quella vera. Negli ultimi tempi si è tanto parlato di “Open” di Andre Agassi. Una lettura appassionante, grazie alla penna di un premio Pulitzer come Moehringer e alla figura di un tennista che è stato tutto tranne che semplice. E’ affascinante leggere dei suoi giri per il mondo, di anno in anno e di Slam in Slam, degli incontri con le altre leggende, degli alberghi e delle cene con i vip, ma anche dei trofei distrutti nei momenti di black-out. Tuttavia non si può non pensare che la vita del tennista non sia solo quella rappresentata da Agassi e da tanti suoi colleghi: un vita certo faticosa e fatta di sacrifici, ma comunque agiata e all’apparenza sfavillante. Come dire: “Dicono che il denaro non faccia la felicità, ma se devo piangere preferisco farlo sul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quelli di un vagone del Metrò”.

Nel circuito Challenger, invece, si sta a contatto con la vita del tennista comune, quello che fa i salti mortali per far quadrare tutto, che deve risparmiare sull’aereo e l’albergo. Quello che dopo aver fatto la doccia viene in ciabatte ad assistere al match dell’amico connazionale. Capita di fare due chiacchiere con i giocatori e i loro allenatori, anche di essere invitata a “scambiare due parole al circolo” da uno di loro, se gli dici che devi scrivere un pezzo sulla sua semifinale. E tutto questo anche se non sei un giornalista conosciuto e accreditato. Insomma, è bello interagire. Per noi, che ci sentiamo partecipi, e anche per i giocatori, che qualche attenzione la meritano. Perché probabilmente anche a loro piacerebbe scendere in un campo con migliaia di tifosi e avere follower a frotte su Twitter: alcuni ci riescono, ma altri devono accontentarsi di un qualche centinaio (se va bene) di appassionati, e di una stanza doppia da dividere con un collega. Ma il tennis è anche questo.

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