Donald Young, un talento ancora inesploso

La storia di Donald Young comincia quando il piccolo americano aveva 10 anni, e faceva il raccattapalle a un torneo di veterani di Chicago. Qui ebbe l’onore di poter palleggiare con niente poco di meno che John McEnroe. Il sette volte campione Slam poco dopo parlò di Donald al New York Times, dicendo che aveva una mano simile alla sua e che sarebbe diventato il suo erede.

Il suo destino era ormai scritto. I suoi genitori erano entrambi maestri di tennis, conosciutisi in una partita di doppio misto, dove giocavano uno contro l’altro. A tre anni Donald già aveva una racchetta in mano e correva da un lato e da un altro colpendo palline con una racchetta quasi più grande di lui.

E’ stato un ragazzo molto precoce. A 14 anni diviene professionista e appena l’anno dopo affianca un certo Barack Obama nella rivista Newsweek, che parlava delle promesse americane. La fiducia in primo luogo sembrò ben riposta: la vittoria agli Australian Open Junior ne furono la conferma, così come la posizione numero uno in quella categoria. Non è tutta rose e fiori l’esordio di Young tra i grandi. Ne sono un esempio lampante le prime 11 partite dove ottiene altrettante sconfitte. Quella più bruciante fu quella rimediata contro Carlos Berlocq, che inflisse un doppio bagel all’allora piccolo americano.

Seguirono momenti di sconforto a quella partita e nella sua mente maturò anche la malsana idea di lasciare il tennis. Patrick McEnroe, fratello del ben più noto John, ricorda quei momenti raccontando come Donald fosse fisicamente impreparato e del fatto che giocò troppi tornei in poco tempo. La cosa positiva fu che imparò dai suoi errori e riprese a giocare nel circuito Junior e Challenger.

Due anni dopo aver vinto Melboune, si impose anche sull’erba londinese di Wimbledon, nel 2007. E da allora nove trofei: un Future e otto Challenger, tutti tranne uno conquistati nella sua nazione natale. Nonostante ciò le aspettative che molti riponevano in lui non furono totalmente ripagate. Solo nel 2011 riuscì a chiudere l’anno con un saldo positivo tra vittorie e sconfitte. Fu un anno fortunato visto che riuscì a raggiungere la sua prima finale ATP, a Bangkok, e a stabilire il suo best ranking, alla posizione numero 38.

Gli anni seguenti sembrarono confermare che quello fu solo un exploit occasionale; o, almeno fu quello che si pensava fino all’inizio del 2015, quando comincia a mostrare veramente qualcosa di diverso. I quarti di finale ad Auckland, la semifinale di Memphis e la finale persa poi a Delray Beach contro Karlovic hanno proiettato il 27enne americano verso una seconda carriera.

“Mi piace vincere. Non ho vinto molto finora, ma che mi motiva e mi fa crescere. Nel tennis si può sempre migliorare. Voglio solo continuare a lavorare duro e guardare avanti, perché c’è sempre un altro torneo la settimana seguente”

“E ‘stato difficile perché un sacco di gente è venuta da me con grandi aspettative, pensando che appena fossi entrato al circuito avrei iniziato a vincere. Io non ho mai pensato e non successe così. Ho continuato a competere e a lavorare sodo. Nei prossimi 12 mesi vorrei aver vinto il mio primo titolo e giocare bene molte partite. Mi piacerebbe entrare presto nella top-20, ma sto cercando di concentrarmi su ogni partita. Se giocherò bene ogni settimana, la classifica arriverà. Sento che arriverà il mio tempo”. Queste le sue parole qualche anno fa, che ahilui non sono state affatto profetiche. Il best ranking è rimasto sempre quel numero 38. Il talento c’è e rimane ma gli anni continuano a passare. Gli States intanto hanno da tempo riposto le speranze in tennisti più giovani e che, sulla scia di Isner e Roddick, basano il loro gioco sull’efficacia del servizio, sempre più imprescindibile nell’era moderna.

Simone Marasi

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