Il “solito” Wimbledon: Federer, Djokovic e molti latitanti

Federer e Djokovic, certezze assolute nel Wimbledon dei soliti noti. E mentre i veterani spadroneggiano gli altri dove sono?

WIMBLEDON – Dopo mesi di estenuante attesa, tra i più disparati campi in terra rossa e le calde atmosfere australiane e nord americane degli “hard courts” di inizio stagione, ecco che come una rinfrescante pioggia in estate si aprono le porte del Major londinese di Wimbledon, tra fili d’erba quasi disegnati su manti perfettamente curati durante tutto il corso dell’anno, con un’audience tanto esigente quanto appassionata e milioni di frementi spettatori collegati dai divani di tutto il mondo.

Cos’è Wimbledon lo sanno praticamente tutti, ed è proprio per questo motivo che a spostarsi per un breve periodo su un territorio così apprezzato risulta quasi come una boccata d’aria fresca tra quelli che sono gli impegni tennistici di assolutamente diversa caratura.

Per tutta la durata del torneo ci sono giocatori che, generalmente considerati di seconda fascia, diventano o tornano ad essere quasi degli eroi, araldi di un universo che pare ormai inghiottito dallo scorrere del tempo senza appello, in un tennis che per i puristi sta diventando sempre più standardizzato tra cannonate da fondo campo e scontri di endurance. Eppure c’è poco da fare quando tanta fisicità penetra tanto a fondo nella mentalità di allenatori e giovani in rampa di lancio, dalla sempiterna discussione sull’importanza del servizio e sul rinnovato concetto di tenuta mentale.

Inutile negare che proprio il colpo di inizio gioco è ancor più fondamentale sull’erba, eppure c’è molta distinzione tra chi lo porta ad un livello superiore e chi fa di esso un quasi insostituibile appiglio: forse è troppo facile parlare del Dustin Brown visto contro Rafael Nadal, ingiocabile viste le caratteristiche dello spagnolo ed a tratti perfetto, eppure di interpreti della specie ormai in via di estinzione del “serve and volley”, passando per il nostalgico “chip and charge”, ce ne sono ma si fanno vedere sempre più di rado.

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Con questa doverosa premessa, tra disillusione e un piccolo briciolo di speranza, questo Wimbledon ha avuto un suo principio, un suo svolgimento e, come tutte le volte, giungerà ad una naturale fine. Forse ci sarà poco da parlare di sorprese clamorose o di exploit senza precedenti, però basta l’ennesima conferma dei “toppissimi” per confermare quanto manchi un effettivo cambio di guardia in cima alla classifica mondiale (anche se in tanti si stanno affacciando in questi mesi alla Top100 o anche più in alto) per contrastare l’egemonia dei soliti noti, dei quali Richard Gasquet non può che essere considerato come parte integrante.

Novak Djokovic e Roger Federer: massime istituzioni che lasciano poco in cui sperare ai loro avversari come dimostrato ampiamente nei due incontri di semifinale, con il serbo che ha ammansito il bel Gasquet di queste due settimane e l’elvetico che ha letteralmente insegnato tennis ad un Andy Murray che, trascinato dalla curva e dalla speranza del bis a casa sua, semplicemente è risultato piccolo piccolo al cospetto del gioco sublime del suo avversario.

Il racconto della storia delle teste di serie del torneo è presto fatto: salvo i primi tre ed il sopracitato “outsider” francese, Rafael Nadal si è dovuto arrendere all’effervescenza “dreddy” di Brown, Stan Wawrinka è uscito ai quarti proprio contro Gasquet (e per 11-9 al quinto poteva tranquillamente starci), Kei Nishikori ha alzato bandiera bianca dopo lo spettacolare match contro Simone Bolelli anche a causa dell’infortunio che lo ha costretto al ritiro nel 500 di Halle, Tomas Berdych le ha prese di santa ragione dall’irriducibile Gilles Simon negli ottavi, David Ferrer non è neanche entrato nel draw, Milos Raonic ha ceduto a Nick Kyrgios al terzo turno mentre Marin Cilic si è arreso a Novak Djokovic nei quarti. Tutto sommato c’è poco da lamentarsi, con forse Tomas Berdych che avrebbe senz’altro potuto fare di più, però tutto nella norma, e per un tennis sempre più “copia/incolla” il segnale d’allarme risuona sempre più forte.

Lasciamo stare le teste di serie, perché i numeri si costruiscono lungo tutta una stagione, e andiamo a guardare come tanti tennisti che ormai sono al top da tempo non riescano ad entrare nel mirino di chi potrebbe, e quasi dovrebbe, raggiungere un nuovo livello nella catena evolutiva del tennis di questi ultimi anni.

Per il tennis femminile ci sono molti più elementi da considerare, visto che per quanto riguarda il fattore continuità sono pochissime a fare da eccezione mantenendo costante il loro rendimento, e con la Top10 che pare quasi un saloon resta forse solo da attendere che qualcosa arrivi dalle retrovie o che qualcosa cambi drasticamente tra le immediate inseguitrici della primatista Serena Williams. Si è visto con il “caso Bouchard”, esplosa e poi giunta quasi ad un vicolo cieco nell’anno delle conferme, con il rischio tangibile di dover ripartire quasi da capo sotto tanti punti di vista, i “dentro-fuori” di Agnieszka Radwanska, Victoria Azarenka (per ovvie ragioni), Jelena Jankovic e delle latitanze delle italiane e di altre vecchie glorie. Anche nel WTA stanno arrivando in molte, come l’erbivora Belinda Bencic, Elina Svitolina, la rediviva Timea Bacsinszky, Madison Keys (e tutta la colonia statunitense compresa l’ottima Coco Vandeweghe di questi Championships), Camila Giorgi e chi più ne ha più ne metta, senza scordarsi del vero e proprio crack Garbine Muguruza che passa direttamente in Top10 dopo due settimane da incorniciare.

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Per uscire dai consueti schemi di giudizio fine a se stesso di un torneo che può dire tutto oppure niente, per fare i complimenti a questo/a o a quello/a basta solo riguardarsi qualche partita e, magari, provare a valutare come un certo giocatore si presenta alle porte del “All England Lawn Tennis and Croquet Club”; per voler cercare di vendere un prodotto diverso, che sia un tennis in continua evoluzione ed una serie di protagonisti sempre diversi, resta sempre da capire cosa dovrebbe entrare nella coscienza comune di gioco adattato ad ogni singola superficie e ad ogni singola situazione, e anche se è vero che i giocatori sono più o meno impostati secondo alcune caratteristiche, la duttilità tattica e tecnica sembra lasciare un po’ spazio al classico braccio di ferro che spesso premia il più preparato e quello definito semplicemente “il più forte”, anche se solo sulla carta.

Non si potrà attendere all’infinito un’inversione di tendenza o la giornata storta, perché il gioco ci si deve costruire in maniera intelligente e sostenibile, così anche la ormai datata storia di Waterloo potrà finalmente non solo insegnare qualcosa ma lasciare un segno tangibile nell’adattamento psico-fisico e nella concezione di “grande impresa”.

Manca poco, anzi pochissimo alla fine di Wimbledon 2015, e dopo qualche strascico del post-finale si tornerà a voltare pagina ed a portare sul tavolo le solite considerazioni che tutto fanno tranne cambiare gli equilibri; forse sarà questo il bello del tennis, eppure se il tennis vuole davvero tornare ad essere più bello e vario la strada è ancora lunga e, a quanto sembra, neanche poi così nettamente tracciata. 

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