Corre l’anno 2013. Sui campi di Wimbledon succedono cose scioccanti e in un certo senso ingannatrici. Nadal si fa sbattere fuori al primo turno da Darcis e, ancora peggio, il campione in carica Roger Federer perde in quattro set da Stakhovsky: è la (finta) caduta degli dei. È un’edizione strana, che vede tre ragazze italiane raggiungere gli ottavi e un giovane azzurro vincere il torneo juniores, quel Quinzi che non è più riuscito a emergere negli anni seguenti.
In questo crocevia di destini il tabellone del singolare maschile si apre e apparecchia uno storico derby polacco nei quarti di finale. Tra Lukasz Kubot (più noto per la sua carriera nel doppio, dove sarà numero 1 del ranking nel 2018 e campione Slam in Australia 2014 e a Wimbledon 2017) e il giovane Janowicz, è il secondo a spuntarla. Il ragazzo, ventitré anni ancora da compiere, è dotato di un servizio fra i più potenti del circuito, a cui fa seguire una combinazione con il dritto fulminante e sembra consacrare con questo prestigioso risultato quanto fatto vedere nel novembre precedente, quando al master 1000 di Parigi-Bercy aveva infilzato Kohlschreiber, Cilic, Tipsarevic, Murray e Simon prima di cedere in finale a David Ferrer. La semifinale sui sacri prati londinesi ripropone lo scontro con Sir Andy, l’idolo di casa, e il match non è esente da tensioni.
Jerzy vince il primo set al tie break, ma dilapida subito il vantaggio psicologico perdendo il servizio in apertura del secondo, spianando la via a Murray per impattare con un 6-4. Nel terzo parziale il gigante polacco scappa avanti 4-1, ma poi perde la bussola e la concentrazione, concedendo al campione olimpico in carica un parziale mortifero di cinque game consecutivi per portarsi in vantaggio. A quel punto la decisione di chiudere il tetto del centrale a causa dell’oscurità sembra favorire Janowicz, in evidente difficoltà, e il pubblico londinese non manca di sottolinearlo con un aplomb diversamente british. Nonostante l’interruzione, il nostro eroe perde ancora il servizio e si lascia stritolare dal numero due del mondo, lanciato verso il suo primo alloro ai Championship nella finale a senso unico con Djokovic.
Questa storia comincia ben prima, quando il piccolo Jerzy, nato a Lodz il 13 novembre 1990 da due giocatori di pallavolo, mostra già nei primi anni di vita uno spiccato talento per il tennis. Papà e mamma, sensibili all’argomento, lo sostengono in tutto per tutto, arrivando a vendere immobili e attività commerciali di famiglia per pagargli il costoso avvio alla carriera professionista. I risultati di questo impegno non tardano ad arrivare, con finali slam juniores (Us Open 2007 e Roland Garros 2008) e parecchi passi incoraggianti. Ma è il 2012 l’anno della svolta: un terzo turno a Wimbledon e la finale a Parigi-Bercy gli valgono l’ingresso nella top 30 e la nomea di astro nascente. L’anno seguente sembra confermare l’impressione, con i terzi turni nel primi Slam dell’anno e i quarti di finale a Roma. Dopo l’exploit di Wimbledon, in agosto arriva anche il best ranking al numero 14 della classifica atp.
E poi? Vi chiederete com’è che il nome di questo giocatore è andato via via svanendo nella nebbia fino a diventare uno di quelli che non riesci quasi a ricordare. Vi domanderete dove sia finito il lieto fine di questa favola. Magari non una vicenda leggendaria, ma almeno una di quelle storie minori ma giuste, dove al sacrificio corrispondono i sospirati premi. Già, perché in fondo sembra impossibile che un ragazzone di oltre due metri in grado di sbattere in campo servizi intorno ai 250 chilometri orari, un tipo brillante, potente, irriverente e ben avviato, possa smarrirsi per strada fino a scomparire dai radar. Ovviamente ci hanno messo lo zampino gli infortuni. Problemi al piede, al braccio, alla schiena e al ginocchio hanno reso il suo percorso davvero accidentato. Tra il 2014 e il 2015, Jerzy ottiene soltanto due finali 250 (rispettivamente Winston Salem e Montpellier, quest’ultima persa per ritiro contro Gasquet), ma è nel 2016 che un lungo stop lo abbatte e lo convince infine a tornare nel circuito challenger in cerca di sé stesso e del proprio tennis, in una stagione malinconica terminata al numero 280 del ranking. Nel febbraio 2017 mette in bacheca il challenger di Bergamo, ma in novembre chiude l’anno con un infortunio al ginocchio contro Kukushkin, in quella che rimane a tutt’oggi la sua ultima apparizione nel circuito.
Ora si spera che questo calvario – accompagnato da polemiche con la federazione del suo paese, da cui non si è sentito tutelato né sostenuto – sia prossimo alla fine. Jerzy si sta allenando a Tenerife, il fisico risponde e le sensazioni sono buone. Il rientro in campo è previsto nel Challenger di Rennes, che si gioca dal 20 al 27 gennaio e che gli ha concesso una wild card. Di certo varrà la pena, nonostante la sbornia di Australian Open (ndr sperando che la drammatica situazione incendi migliori), di dare un’occhiata a questo ragazzo che combatte duramente per scrivere alla sua storia un finale migliore.
Il tennis è brutale, lo dicono in tanti, perché non è un semplice opposizione tra due giocatori ma è soprattutto una lotta contro sé stessi, una sfida con i limiti e con il destino. Persino lo spettatore a volte, preso dalla passione, senza rendersene conto guarda soltanto uno dei giocatori, perché quella è la sua partita. L’esempio più recente che mi viene in mente è quello del 2019 di Murray (guardacaso ancora lui), cominciato in Australia con l’eroica gara d’addio con Bautista Agut (nell’infausto ruolo di becchino) e poi ripreso con un percorso in salita altrettanto eroico, in cui il cuore del campione ha fatto di tutto per ribellarsi al fato e infine è riuscito ad alzare un trofeo tra i brividi generali. Ecco, conoscendo la vicenda e fatte le dovute proporzioni, il rientro di Janowicz me lo immagino così: un campo tutto per lui in cui Jerzy vincerà in ogni caso, anche solo per aver trovato la forza di provarci di nuovo.