Il recente documentario A mi manera, prodotto da Netflix e dedicato a Carlos Alcaraz, ha acceso un intenso dibattito nel mondo del tennis. Al centro, una domanda cruciale: è possibile entrare nella leggenda del tennis senza sacrificare tutto? La risposta, per molti, non è così semplice. E tra coloro che hanno deciso di affrontare l’argomento con franchezza c’è Carlos Moyá, ex numero uno del mondo e storico allenatore di Rafael Nadal.
Moyá, oggi lontano dai riflettori dopo l’addio alle scene di Nadal, osserva da una posizione privilegiata l’evoluzione di Alcaraz, simbolo della nuova generazione spagnola. Pur non avendo ancora visto il documentario, ammette di aver letto abbastanza per farsi un’idea chiara. Il giovane murciano rivendica il diritto di seguire un percorso personale, lontano dai dogmi che hanno accompagnato le carriere di Federer, Djokovic e Nadal. “Dei tre che hanno scritto la storia di questo sport, nessuno lo ha fatto come predica lui”, osserva Moyá, che però lascia aperta una porta: “Magari è un pioniere, un guru, e ci riesce comunque”.
L’idea di voler diventare il migliore di sempre senza sacrificare la sfera personale, per Moyá, potrebbe rappresentare un’illusione: “Forse Alcaraz si sta esigendo qualcosa che non esiste. A 21 anni non si può essere perfetti. Ci vuole tempo, esperienza”. Una riflessione che porta l’ex coach di Nadal a una considerazione fondamentale: “Già da ‘schiavi del tennis’ è quasi impossibile arrivare a certi risultati, figuriamoci se non lo si è”.
Molte delle critiche, sollevate anche da commentatori e fan, si sono concentrate sul paragone implicito tra Alcaraz e Nadal. Il documentario sembra suggerire che Rafa fosse quasi “uno schiavo del tennis”, sacrificando ogni altra parte della propria esistenza. Ma Moyá smentisce con decisione: “Rafa non è stato uno schiavo. Non lo vedevi a eventi o alla Formula 1, ma ha avuto una vita piena. Ha avuto hobby, tempo libero, ha vissuto”. Una difesa appassionata, che mira a restituire una verità più sfumata e meno rigida del campione di Manacor.
Anche Roberto Bautista Agut, 37 anni e veterano del circuito, ha detto la sua dopo la recente sconfitta a Madrid: “Non credo si possano vincere Slam andando a dormire alle sette del mattino. Il tennis è esigente”. Le sue parole si inseriscono nello stesso filone di pensiero: per restare ai vertici, la dedizione è imprescindibile, e la libertà di un ventunenne deve necessariamente confrontarsi con la realtà di uno sport che non perdona leggerezze.
Ciononostante, nessuno mette in discussione il talento e i risultati già raggiunti da Alcaraz. “Ha vinto quattro Slam. Ce ne dimentichiamo, ma è qualcosa di straordinario”, ricorda Moyá. E aggiunge che, al di là della filosofia dichiarata, dietro i trionfi del murciano ci sono inevitabilmente disciplina e lavoro. Forse, oggi Carlos può permettersi di “vivere il momento”, ma il vero interrogativo resta: questa visione è sostenibile nel lungo periodo?
Il suo stile, libero e creativo anche fuori dal campo, è una boccata d’aria fresca in un mondo spesso ossessionato dalla perfezione. Ma come suggerisce Moyá, la maturazione passa anche attraverso le sfide e gli aggiustamenti di rotta. Per questo motivo, “la sostenibilità di questa filosofia resta tutta da verificare”.
Carlos Alcaraz rappresenta oggi più di un campione: è il volto di una nuova generazione che cerca di conciliare eccellenza e benessere personale. Il dibattito aperto dal suo documentario mette in luce la tensione tra l’ambizione e la vita vissuta, tra l’ascesa verso la leggenda e il diritto di essere semplicemente un ragazzo. Che la sua strada sia percorribile o meno, solo il tempo potrà dirlo. Intanto, resta il fascino di una scommessa rara: vincere, restando se stessi.
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