Non fa male! Non fa male!
Così Duke, l’allenatore di Rocky nel quarto capitolo della saga, incoraggiava il pugile italoamericano. Molto probabilmente nella testa di Novak Djokovic un simile mantra continuava a risuonare durante le quasi 5 ore di gioco contro Roger Federer. Il serbo ha dato per l’ennesima volta dimostrazione di avere una forza mentale e fisica, unica nella storia non solo del tennis ma dello sport. Immortale e immorale allo stesso modo. Immortale perché quando sembra sul punto di capitolare, trova sempre lo spunto per rialzarsi e immorale perché crea nell’avversario illusioni ed aspettative che lui, con rara cattiveria e perfidia, puntualmente distrugge.
LA PARTITA. David Goffin, con la sua fiamminga capacità di sintesi, ha saputo definire con grande puntualità cosa sia Djokovic: un muro. E come tale, ieri, il serbo si è comportato. Magari ci sono delle piccole crepe o dei cedimenti (il secondo set e il quarto) ma è troppo solido, troppo stabile, troppo indistruttibile. Federer dal canto suo ha mostrato il suo immenso e sconfinato bagaglio tecnico, eppure ogni volta che lo svizzero sfoderava il suo miglior colpo, il serbo incassava e trovava il modo di reagire, spegnere l’entusiasmo e riportare le cose dal suo lato. Torna utile la similitudine con Rocky. Djokovic sembrava Stallone che ad ogni violentissimo colpo di Drago, incassava ma poi, velocissimo, girava il viso e lo invitava a colpirlo più forte e ancora più forte. Djokovic è questo. È un lottatore unico e un magnifico agonista. Uno così non può piacere a tutti. Anzi, è antipatico alla maggior parte del pubblico. Il motivo è semplice. È bionico e sa di essere il più forte. È il saccente per eccellenza che sa che alla fine vince lui. Il pubblico di Wimbledon è sportivo e imparziale ma quando si è trattato di esultare per uno dei tantissimi scambi entusiasmanti visti durante il match, si è sempre schierato con Federer. Non bastava nemmeno questo.
Nel primo set, il serbo ha mostrato solidità e compattezza esattamente come il suo rivale e il tie-break era l’unica possibile soluzione. Vinto puntualmente dal numero 1 del mondo. Il primo set ha messo a nudo che il tremendo rovescio slice di Federer non faceva così tanto male al serbo, o almeno non era letale come nella semifinale con Nadal o, addirittura, corrosivo come per Berrettini e Nishikori. Con Nole non basta. E non è bastato un Federer preciso e tecnicamente impeccabile. Il muro nel primo set non ha mostrato alcun cedimento. Nel secondo set, inspiegabilmente, Nole è uscito dalla partita e infatti il tutto è scivolato veloce verso Federer. Un 6-1 roboante e inatteso. Un blackout inaspettato ma soltanto temporaneo. Il serbo si è riattivato dopo una pausa toilette e ha ristabilito la modalità muro. Terzo set al tie break e terzo set per Nole. Per un Djokovic diabolico e solido, ci vuole un Federer God mode attiva. E lo svizzero, letteralmente, gioca da Dio. Nole pure. Ne esce un quarto set entusiasmante con scambi fantastici e tanto tennis da ricordare. Alla fine la spunta lo svizzero. La tavola è ormai apparecchiata per la leggenda. Si va al quinto, con la nuova, assai discutibile regola del tiebreak al 12-12. Il quinto set è ancora più leggendario, una di quelle cose che chi scrive in questo momento racconterà ai nipoti. L’equilibrio regna sovrano: Federer all’arrembaggio che tenta di mettere il muso avanti e Djokovic che lo riprende per la collottola all’ultimo respiro. Un tira e molla, con lo svizzero che accende fuochi tutto il tempo e il serbo che ci butta sopra una bacinella d’acqua ghiacciata. Federer si gioca due match point ma Nole li cancella, nell’incredulità generale, anche la sua. Due urla di gioia strozzate in gola. Il match prosegue fino a quel dritto steccato che decolla nel cielo di Wimbledon e proietta il serbo nella leggenda, ancora una volta.
COSA CI RIMANE? Ci rimane un altro pezzo di storia scritto a Church Road. La prestazione di Djokovic è un tributo all’abnegazione che andrebbe messa in ogni azione umana, anche nel quotidiano. Poco più di un anno fa, il serbo toccava uno dei punti più bassi della sua gloriosa carriera: la cocente eliminazione dal Roland Garros per mano di Cecchinato. Una caduta inattesa e dolorosa. Un montante (per mantenere la similitudine con il pugilato) che avrebbe steso chiunque. Da allora, è iniziata una corsa, anzi una rincorsa, che lo ha visto cannibalizzare il tennis e riprendersi tutto quello che c’era da prendere. Una corsa che di certo non si fermerà qui. Questa finale entra di diritto nel libro dei record per le sue 4 ore e 57 minuti di gioco, ma entra nella leggenda delle più grandi partite del torneo: va a sedersi allo stesso tavolo di Borg McEnroe del 1980 e con la Federer Nadal del 2008. Sono state 5 ore di incredibile equilibrio e di indicibile spettacolo. Con un sottile filo rosso che ha collegato tutti e 5 i set: la solidità del serbo. Se il rovescio è il suo colpo per antonomasia, se la difesa e l’acume tattico sono il suo tratto distintivo, se la volée e il servizio non sono i suoi punti forti, una cosa è certa: solidi come il serbo non ne hanno mai fatti e sarà difficile trovarne di più solidi. Il serbo si va a sedere accanto a Borg con 5 titoli a Wimbledon, con il suo sguardo fiero e beffardo. Un altro graffio nella storia del tennis.
Il tennis che, ogni stagione di più, è quello sport in cui giocano due giocatori divisi da una rete e alla fine vince Djokovic.