Hannah Arendt scrisse che il peggior destino di un eroe è non morire da eroe, cosa che Alejandro Gandara molto tempo dopo interpretò come un concetto che non riguarda solo gli eroi, ma anche le persone comuni come noi.
Se Gandara aveva ragione e l’idea è giusta, in qualche modo i tifosi di Roger Federer hanno percorso il suo stesso cammino durante questi Australian Open; e, certamente, nella partita contro Djokovic lo svizzero ha dimostrato di esserlo davvero un eroe.
Tutti, quando la partita è cominciata, erano uniti: Federer e il suo esercito, i suoi fan, che nel finale del secondo set l’hanno lasciato praticamente da solo. Leggere, in quel momento, le previsioni sul destino di Roger che hanno fatto i suoi seguaci, è stato come contemplare un panorama buio e ignoto.
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Roger Federer, il giocatore più amato nella storia del tennis, anche a battaglia non terminata, improvvisamente è stato anche il più abbandonato. Forse una delle cause del vuoto esistenziale che caratterizza le società post-industriali è che la fede negli dei moderni (come gli atleti) è spesso breve, occasionale, a tratti sleale.
Un vero credente non segue il suo Dio solo quando compie miracoli. Rafa Nadal ne sa qualcosa e tutti sappiamo che tipo di atleta sta dimostrando di essere oggi. L’eroismo può essere esercitato al centro della scena, sotto le luci della Rod Laver Arena, ma anche in pigiama guardando la televisione; in entrambi i casi si dimostra di essere eroi, quando la terra è arida e cala la notte, in mezzo ai fantasmi.
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All’alba del terzo set, circondato solo da alcuni colleghi che riponevano ancora un minimo di speranza in Federer, seduto in tribuna, sulla sua sedia a rotelle, un signore si è alzato in piedi con il pugno al cielo, lottando insieme al suo eroe per evitare che morisse da persona qualsiasi; non si muore mai in viaggio, dopo essere stati incoraggiati dalla certezza che la coscienza non può mai arrendersi, se non aldilà di quella collina.
E’ così che sono morti gli eroi. Per ora.
Fonte: Puntodebreak.com
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