Tanti auguri gattone Mečíř

Spegne cinquantasei candeline Miloslav Mečíř, grande talento incompiuto

Ci sono figure che non campeggiano quotidianamente sulle prime pagine e i cui nomi non ricorrono ossessivamente negli albi d’oro dei grandi tornei eppure, a dispetto della bacheca non propriamente ingombra, sono circondate da un’aura leggendaria e poetica. Spesso sono atleti che hanno seguito l’istinto a scapito della ragione e che, guidati dalla passione, hanno lasciato il segno nel cuore del pubblico più che negli almanacchi. Miloslav Mečíř è un esponente di spicco di questa categoria. La sua è una storia velata di malinconia che in un breve articolo non può essere esaurita ma soltanto sfiorata, con il garbo ideale di chi ammira la punta dell’iceberg ben sapendo che sotto c’è di più. Giocatore atipico, dotato di uno stile molto personale, si è battuto con i grandi degli anni ottanta ottenendo scalpi di lusso, con una predilezione per gli scandinavi che gli è valsa la nomea di ammazzasvedesi – Edberg, Wilander e Gunnarsson, ma anche Sundstrom e Nystrom ne sanno qualcosa. Il suo più celebre e dominante connazionale Ivan Lendl gli ha sgarbatamente negato due volte la gioia di sollevare uno Slam con due 3-0 senza appello (il famoso Us Open 86 con quattro finalisti cecoslovacchi tra uomini e donne – Navratilova e Sukova le quote rosa – e Australian Open 89), ma è capitolato nell’atto finale di Key Biscayne dell’87, allora in una formula similSlam con sette incontri al meglio dei cinque in due settimane. Altre vittime illustri del nativo di Bojnice sono Connors, Boris Becker e John Mc Enroe, quest’ultimo sconfitto nella finale di Dallas 87 e Yannick Noah a Indian Wells 89, ultimo titolo conquistato dallo slovacco (lungo la strada aveva battuto tra l’altro Michael Chang e un tale Pete Sampras).Giocava un tennis tutto suo, ancora rimpianto da molti. Ipnotizzava l’avversario con un ritmo blando, quasi sonnacchioso, appoggiandosi ai suoi colpi per poi ferirlo con una rasoiata improvvisa e perentoria. Capace anche di straordinari recuperi difensivi, evidenziati dal contrasto con la sua flemma costante, aveva nella faretra ottimi colpi al volo, che usava però con parsimonia. C’era un senso di armonia nelle sue movenze, nel suo studiare e stanare l’avversario con la saggia pazienza di un cacciatore delle terre selvagge, nella sua copertura del campo e nel suo bellissimo rovescio a due mani. Un eccesso di potenza sembrava volgare per lui, così come le espressioni sguaiate. Dopo il punto rimaneva spesso impassibile, come se si trovasse in un altrove parallelo, regno di una calma perfetta. Un gattone, appunto.

Oltre alle due finali Slam, ha raggiunto il penultimo atto a Roland Garros 87 e a Wimbledon 88, perché il suo gioco funzionava su ogni superficie. Nel tempio del tennis ha annichilito nei quarti Mats Wilander, frantumando il suo sogno di grande Slam e in semifinale si è portato avanti di due set contro Edberg prima di infrangersi e rimanere a bordo pista senza benzina. Il punto più alto della sua avventura giungerà poco più tardi, alle olimpiadi di Seul, quando è lui a rimontare Stefan Edberg e a batterlo al quinto set, per poi sconfiggere Tim Mayotte e salire sul gradino centrale del podio con una medaglia d’oro al collo.Purtroppo, dopo un’altra stagione di buon livello, i problemi alla schiena, che già ne avevano condizionato il servizio trasformandolo in un punto debole, l’hanno costretto a un ritiro precoce e carico di rimpianti. È stato Stefan Edberg a sconfiggerlo per l’ultima volta nel 90, sull’erba di Wimbledon, nella partita che ha chiuso la sua carriera all’età di 26 anni. È un peccato che questo personaggio anticonformista e poco mediatico, strano ma autentico, abbia chiuso senza vincere nemmeno un Major, la ciliegina fantasma sulla torta di una carriera da 11 trofei Atp (6 nel solo 87) e il numero 4 come best ranking, posizione curiosamente raggiunta anche nella classifica del doppio, specialità in cui ha vinto altri 9 titoli e un bronzo a Seul. Probabilmente la sua mancanza di cattiveria agonistica ne ha limitato le vittorie ma d’altro canto gli ha permesso un tennis leggero e libero dall’ossessione del risultato. Poteva andare diversamente, certo, poteva vincere gli Us Open 86 con la racchetta di legno, che è stato l’ultimo ad abbandonare. Ma in fondo è bello anche così, un altissimo e dinoccolato felino che gioca per per gioco e alla fine perde; sconfitte eterne e romantiche come punti interrogativi, come discorsi rimasti per sempre in sospeso.

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