di Renato BORRELLI
Il tennis che parla tedesco? Un’anomalia della storia, non c’è dubbio. “Ah, cominciamo bene…”, già mi pare di sentirli quei 3 o 4 che leggono solitamente le elucubrazioni del sottoscritto, “dove vorrà andare a parare stavolta questo qua?”. Calma e sangue freddo: ci arriviamo per gradi. La ‘forma mentis’ della stirpe germanica è universalmente considerata quella di un individuo duro, forgiato nell’acciaio (Krupp, ca va sans dire), tetragono ad ogni emozione, che fa della fredda, costante ed indefessa applicazione la propria forza: nessuno slancio di fantasia, teoricamente in grado di allontanare dal raggiungimento dell’obiettivo -avendo in sé il potenziale rischio di disperdersi in mille rivoli inconcludenti-, solo una fervida ricerca del traguardo ultimo percorrendo la strada diritta e senza scorciatoie dell’ impegno strenuo, senza lesinare energie fisiche e mentali. I popoli di ceppo mediterraneo sono diversi: sarà il mare che rallegra l’anima o il sole che scalda i cuori, quel che volete voi, ma di fatto la loro azione è, come dire, meno intensa, pressante, con notevoli concessioni all’estro ed all’ inventiva, le quali in ogni caso consentono molto spesso di centrare comunque lo scopo. Solo arrivandoci con altri mezzi, alla resa dei conti ugualmente validi… Due diverse filosofie di vita insomma, figlie di una cultura e di un carattere che si è forgiato nei secoli in tali opposte maniere. Un osservatore terzo, ammesso che ve ne siano rispetto alle due strade maestre di portare avanti la propria esistenza testè descritte, potrà manifestare la propria simpatia per l’una piuttosto che per l’altra, ma non c’è dubbio che entrambe reciprocamente si completino, finendo con il costituire due facce della stessa medaglia.
Bene: tutto ciò premesso, vogliamo parlare (finalmente) di tennis? Per lungo tempo, diciamo dal barone Von Cramm in avanti -la preistoria della racchetta, insomma-, non è venuto fuori dal cuore dell’ Europa nessun giocatore di rilievo: mentre praticamente in ogni specialità, specie quelle di squadra ove l’ordine e la disciplina sono elementi fondamentali per arrivare al successo, gli atleti tedeschi riuscivano a farsi onore, non di rado assurgendo ai vertici mondiali. Di punto in bianco, nell’anno di grazia 1985, si manifesta un ragazzino dai capelli rossicci, che a Wimbledon -oh, nel tempio, mica a Canicattì con tutto il rispetto…- mette tutti prepotentemente in fila: campioni celebrati, campioni potenziali, campioni incompiuti o mancati. E ragazzino solo quanto ad età (17 anni e rotti, che sarebbero stati buoni per prendere parte al torneo junior), dato che fisicamente si trattava di un adulto bello e formato -grande e grosso, nonché robusto la sua parte-: esuberante, allegro e spregiudicato, nel proprio modo di stare in campo rispecchia tutte tali caratteristiche, le quali certo non farebbero pensare ad un teutonico rigido ed inquadrato. Gioca costantemente d’attacco, pronto a portarsi avanti in ogni occasione, chiudendo il punto con volèes ardite, che quando occorre (pure troppo spesso a dire il vero, ma qui è il suo innato senso dello spettacolo a prevalere) incoccia in spettacolari tuffi sull’erba: a Church road d’accordo -beh, facile con i verdi prati britannici-, ma non perderà tale spettacolare caratteristica manco sulla terra, e financo sul cemento a costo di sbucciature varie…
Chi lo vede giocare e non lo conosce, a tutto pensa meno che ad un conterraneo di Beckenbauer (tanto per dire di un altro ‘crucco’ illustre in ambito sportivo). Vincerà molto anche successivamente, entrando di diritto nell’olimpo della disciplina: con un cruccio, lo ricordiamo ‘en passant’, che è quello di non aver mai trionfato sul rosso -nemmeno al torneo di… Canicattì di cui sopra!-, superficie che pure non gli dispiaceva. Va beh, torniamo a bomba: come sovente accade quando un paese relativamente nuovo si affaccia alla ribalta tennistica, il fortunato funge da apripista per pochi o molti epigoni, che successivamente si fanno strada: e sulle orme di Becker (perché di lui stiamo parlando, non si fosse capito…) si lanciarono in diversi, comunque mai all’altezza del prototipo.
Uno in particolare comunque viene ricordato, anche -e soprattutto- perché il suo unico Slam, e sempre a Londra, lo guadagnò piegando all’atto conclusivo proprio il modello originale, in un duello fratricida che ancora è nella memoria dei posteri. Si tratta di Michael Stich, detto l’airone per la propria notevole apertura alare, o più prosaicamente herr tie-break (grazie alla capacità di tenere i nervi saldi nei momenti decisivi del set, molto superiore alla media). Sì, in questo era un vero figlio di Germania, ma per il resto… Un altro attaccante pieno di risorse, dal gioco fantasioso, con una volèe di diritto –‘en passant’ pure in questo caso- fra le migliori della storia. Il Wimbledon cui facciamo riferimento è quello del 91: Boris era il re consolidato dei prati britannici (“il giardino di casa mia” li chiamava), visse la sconfitta dal più giovane -di appena un anno- connazionale come uno smacco, che non riuscì a superare negli anni mantenendo un rapporto sempre piuttosto freddo con il rivale. L’anno dopo quelli della Federazione tedesca li misero d’accordo d’autorità -non si scherza da quelle parti, com’è noto…-, e puntuale arrivò la vittoria nel doppio olimpico di Barcellona, praticamente senza mai parlarsi o quasi (altra divagazione: discutevano -sigh- anche su chi doveva stare a sinistra, ritenuta la parte decisiva perché lì si giocano i vantaggi !).
Il longilineo Michael raggiunse anche il numero due del ranking, posizione che toccò in sorte pure ad un altro loro conterraneo, della generazione successiva: Tommy Haas, pure lui bello davvero da vedere con quel rovescio ad una mano di grande efficacia e spettacolare estetica (come gli altri due peraltro). Manco a farlo apposta, e ad ulteriore conforto della nostra tesi di partenza: anch’ egli giocatore d’attacco, di estro ed inventiva. Da lui, che si fece luce nel primo decennio del secolo, ai tempi nostri pochi lampi provenienti da Monaco e dintorni: sì, c’è stata gente dalle ‘vere’ caratteristiche teutoniche -pensiamo a soldatini come Nicolas Kiefer e Philip Kohlschreiber-, ma tutto sommato comprimari. Ora c’è Sascha Zverev in rampa di lancio, ma è un tedesco d’importazione (origini russe) che a dire il vero non appare al momento né carne né pesce: martella dal fondo -poca fantasia insomma-, in compenso ogni tanto ‘sbrocca’ alla latina. Delle due filosofie, come le abbiamo definite, sembra insomma aver preso da ciascuna il lato più deteriore. Con il che si conferma, almeno allo stato attuale, che nello sport della racchetta i teutonici… da corsa costituiscono uno strappo alla vulgata corrente rispetto ai loro geni primari.
Cerchio chiuso, statemi bene. Con una postilla doverosa: se non li prendiamo bonariamente un po’ in giro adesso i nostri cari tedeschi, che tramite quella signora alla Cancelleria ci stanno guardando con occhi decisamente poco amichevoli, quando più? Amici come prima, vi vogliamo bene comunque…