Ashleigh Barty e una maledizione lunga 40 anni

A quarant’anni dall’ultimo successo australiano nello Slam di casa, Ashleigh Barty rappresenta l’ultima speranza per il pubblico di Melbourne Park. La ventunenne di Ipswich riuscirà a spezzare questa strana maledizione?

Era il 1978 quando Christine O’Neil, raccolto il testimone di Evonne Goolagong, trionfò agli Australian Open, diventando così la quindicesima tennista australiana della storia a vincere il torneo più importante del suo paese. Quindici giocatrici che, dal 1922, anno di introduzione del singolare femminile, hanno dato lustro al movimento tennistico australiano.

A distanza di quarant’anni da quell’impresa, però, quello di Christine O’Neil è ancora l’ultimo nome australiano inciso sul trofeo; indubbiamente molte cose sono cambiate da allora, basti pensare che proprio nel 1978 il tabellone femminile era composto da sole 32 giocatrici (contro le 128 attuali), di cui ben 17, più della metà, erano australiane. Già solamente da un punto di vista statistico è evidente che le percentuali di una vittoria australiana erano sensibilmente più alte; O’Neil, tra le altre cose, non era nemmeno testa di serie, ma vinse il torneo senza perdere nemmeno un set, il suo primo e ultimo Slam.

Christine O'Neil
Christine O’Neil

Quest’anno, dopo quarant’anni dall’ultimo trionfo, sette ragazze si sono presentate a Melbourne Park con la speranza di spezzare questa strana maledizione: Samantha Stosur, Olivia Rogowska, Jaimee Fourlis, Daria Gavrilova, Lizette Cabrera, Ashleigh Barty e Destanee Aiava. Tre di loro sono riuscite a superare il primo turno, ma solo Ashleigh Barty ha saputo spingersi tra le migliori 32; una ragazza di ventuno anni che mai, prima d’ora, aveva fatto così tanta strada in un torneo dello Slam, ma che adesso rappresenta l’ultima speranza del caldo pubblico “aussie”.

Ben diverso il destino delle sue connazionali. Sam Stosur, una veterana del circuito femminile, non è riuscita ad uscire dalla crisi di risultati che la attanaglia da ormai troppo tempo, Daria Gavrilova, che a Melbourne difendeva il quarto turno dello scorso anno, ha sprecato l’impossibile nel suo match contro la Mertens, finendo per uscire di scena, come anche la giovanissima Aiava, diciassettenne sicuramente promettente, ma ancora troppo acerba per palcoscenici di questo calibro. Solamente la solidità e la costanza di Ashleigh Barty, eccezionale nel neutralizzare i colpi di giocatrici ben più fisiche e potenti di lei, come la nostra Camila Giorgi o la bielorussa Aryna Sabalenka, continuano ad alimentare i sogni di Melbourne Park. Ad attendere la tennista di Ipswich al prossimo turno ci sarà un’altra giovane promessa, la giapponese Naomi Osaka.

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E pensare che dal 1922 al 1934 l’Australian Open ha conosciuto solo finaliste e, di conseguenza, vincitrici di casa, una striscia di dodici anni interrotta dal successo della britannica Dorothy Round nel 1935. La difficoltà di tornare ai fasti di un tempo, però, non rappresenta un problema solamente per il movimento australiano; i francesi, infatti, aspettano da ben diciotto anni che una giocatrice transalpina torni ad alzare il trofeo del Roland Garros sul Philippe Chatrier (ultima a riuscirci fu Mary Pierce nel 2000), mentre gli inglesi, in questo molto simili ai cugini australiani, ripongono in Johanna Konta le loro speranze di riportare il trofeo di Wimbledon in patria, dopo l’ultimo successo di Virginia Wade datato 1977. Al contrario, non possono assolutamente lamentarsi gli americani che, dopo aver gioito per le innumerevoli vittorie delle sorelle Williams (e non è detto che non possano arrivarne altre), sono stati piacevolmente sorpresi dall’exploit di Sloane Stephens, fresca vincitrice dello Us Open.

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