Coach: Lendl, Krajicek e Mac

Andy Murray, scrivevo qualche giorno fa, aveva maledettamente bisogno di un coach.
La separazione da Amelie Mauresmò lo aveva indotto a trovare nel buon Jamie Delgado un simpatico rincalzo, ottimo sparring ma non certo dotato della personalità tennistica cui Murray deve guardare per arginare i propri eccessi emotivi. E così, perché deve essere andata così, ha guardato l’agendina (mi piace immaginare che sia cartacea, anche se sono sicuro che parliamo della memoria del suo smartphone) ed è saltato fuori il nome di Ivan Lendl.

Il ceco, naturalizzato statunitense, ha per due anni accampato ogni scusa per evitare di rovinare l’ottimo lavoro fatto con lo scozzese accettando le profferte di Thomas Berdych, che lo ha corteggiato in ogni modo per farlo diventare suo coach. Lendl, uomo che ha sempre visto nel modo giusto, partendo dalle sue sconfitte evidentemente, aveva subodorato che Berdych, a quell’età, non si cambia. Chissà, forse gli ha anche ricordato il suo modo di giocare. Anzi, a ben vedere, i due si somigliano tanto, rovescio a due mani a parte. Lancio di palla altissimo al servizio, due fondamentali da manuale del tennis, una scarsa propensione per il gioco a rete, ottima mobilità laterale con passione per i passanti in corsa. Ma l’attitudine alla vittoria di Berdych è rimasta quella di Lendl pre-1984 (citofonare McEnroe).

Così Murray ha chiamato Ivan, gli ha detto qualcosa tipo “sai ho fatto una stupidaggine grande quanto una cosa a chiederti di separarci dopo un oro olimpico (sull’erba di Wimbledon), uno US Open e soprattutto dopo aver fatto dimenticare il nome di Fred Perry ai miei connazionali, cosa da nulla… ho preferito un’allenatrice part-time, francese…”. Insomma, forse Murray è cresciuto, ha capito che sbraitare contro una panchina serve a poco dopo ogni scambio perso, e che uno che di personalità ne ha da vendere può aiutarlo. Ora. Non tra un anno, per provare a scalzare Novak Djokovic dalla poltrona di signore indiscusso del tennis dell’orbe terracqueo.

Sempre di pomeriggio o sera, a casa Wawrinka deve essere successa qualcosa del genere. Il buon Norman (Magnus) ha tanti pregi (tanti davvero) ma non quello di essere un giocatore adatto all’erba e Stan ha forse deciso di usa il suo immenso talento per vincere Wimbledon, ricordandosi di avere potenza e tocco a sufficienza. Il connubio con Richard Krajicek quindi va in questa direzione, non in altra: cercare un tennis offensivo per un giocatore pigro ma clamorosamente dotato del dono di far diventare vincenti colpi per altri proibitivi. L’inizio del rapporto, consumato agonisticamente al Queen’s, è stato da dimenticare. Ma la scelta di Stan non è sbagliata, perché l’olandese, vincitore a Wimbledon nel 1996, un outsider di lusso un una generazione di fenomeni che oggi ci sognamo, sa come muoversi portando a spasso una fisico muscolare e possente sui prati.

La vera strana squadra del tennis mondiale è quella costituita da Milos Raonic, Riccardo Piatti e John McEnroe. La domanda è: cosa può dare Super-Mac al giocatore canadese in ottica Wimbledon. Poco, anche se l’impressione maturata nel vedere Raonic al Queen’s è quella di un giocatore che si proietta a rete appena possibile, esattamente come lo statunitense. Un pregio di Piatti è sempre stato quello di far lavorare Raonic non solo su quello che sa fare già, ma soprattutto su quello che non sa fare (leggi: back di rovescio e colpi interlocutori). L’accoppiata con un McEnroe super impegnato potrebbe fornire quell’ombrello di motivazioni, quel totem da guardare nei momenti di difficoltà, la leggenda cui ispirarsi. Nel tennis moderno non si tratta di dettagli da sottovalutare.

Tra un paio di settimana ne riparliamo. Chi avrà fatto la scelta più giusta?

Alberto Maiale

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