Il dibattito sull’equità nella programmazione degli incontri di tennis femminile torna a infiammare il panorama sportivo internazionale. L’ultima edizione del Roland Garros ha visto ancora una volta l’assenza totale di match femminili nelle undici sessioni serali del Court Philippe Chatrier, scatenando proteste da parte di atlete e rappresentanti istituzionali.
Una questione sistemica, non individuale
Portia Archer, CEO della WTA da circa un anno, ha definito il problema della visibilità del tennis femminile come una “questione sistemica”. In un’intervista alla BBC, ha sottolineato come la mancanza di partite femminili nelle fasce orarie di massimo ascolto non sia solo “una decisione sbagliata”, ma “una grande occasione persa” per tutto il movimento tennistico.
“I fan si aspettano – e sempre di più pretenderanno – di vedere le migliori partite di tennis, che si tratti di uomini o di donne, nelle sessioni principali”, ha affermato Archer, indicando anche le emittenti televisive come attori centrali nel cambiamento. Nonostante la programmazione sia formalmente nelle mani degli organizzatori dei tornei, secondo la CEO della WTA c’è bisogno di un dialogo collettivo con tutte le parti coinvolte, dai direttori dei tornei agli sponsor, per rispondere a una crescente richiesta di equità da parte del pubblico.
Archer ha inoltre dichiarato l’intenzione di confrontarsi direttamente con la direttrice del Roland Garros, Amélie Mauresmo, per “discutere come produrre un cambiamento”. Pur senza attribuire la responsabilità a una singola figura, la numero uno della WTA ha ribadito: “Non è un problema legato solo a uno Slam o a un individuo, ma a un sistema che deve essere riformato”.
La voce delle giocatrici: il potente messaggio di Ons Jabeur
Tra le voci più forti nel denunciare la disparità, quella della tunisina Ons Jabeur, tre volte finalista Slam. In una toccante lettera aperta, l’ex numero due del mondo ha messo in luce i doppi standard che ancora affliggono lo sport femminile.
“Quando una donna vince 6-0, 6-0, si dice che è noiosa. Se lo fa un uomo, è dominanza, forza, inarrestabilità”, scrive Jabeur. E prosegue con un appello accorato: “Onorare un lato dello sport non dovrebbe significare ignorare l’altro. Lo sport femminile ha costruito la propria eredità in modo brillante, ma troppo a lungo senza ricevere pieno riconoscimento”. Un messaggio che ha trovato pieno supporto nella WTA: Archer ha definito le sue parole “molto eloquenti” e “in linea con i valori che il tennis femminile rappresenta da sempre”.
Jabeur ha anche sottolineato come le atlete vengano spesso giudicate con metri diversi: “Se esultano, sono drammatiche. Se non lo fanno, sono fredde. E se giocano con potenza, si dice che ‘giocano come gli uomini’. Come se la forza non potesse far parte del gioco di una donna”. Una riflessione che evidenzia quanto il problema non sia solo di visibilità, ma anche culturale.
La replica di Mauresmo e il nodo della durata dei match
Amélie Mauresmo, ex numero uno del mondo e oggi direttrice del Roland Garros, ha motivato la scelta di non inserire incontri femminili nelle sessioni serali con la durata più breve delle partite, che nel femminile si giocano al meglio dei tre set, contro i cinque del maschile. Una giustificazione che però non ha convinto le atlete e i rappresentanti del circuito.
Secondo Archer, questo approccio “non tiene conto delle aspettative del pubblico né del valore delle protagoniste in campo”. E aggiunge: “Il nostro sport è pieno di storie avvincenti, di resilienza e di spettacolo. Non possiamo più permettere che il palcoscenico venga riservato a un solo genere”.
Verso un cambiamento collettivo
Il tennis femminile chiede visibilità, ma anche rispetto. Il messaggio delle giocatrici e della WTA è chiaro: non si tratta solo di “parità di trattamento”, ma di riconoscere appieno il valore del tennis femminile agli occhi del mondo. Con il sostegno del pubblico, delle emittenti e dei dirigenti dei tornei, il cambiamento non è solo auspicabile, è inevitabile.
Come sottolinea Archer: “Continueremo a lottare e a fare pressione. È nel nostro DNA”.