Circus Amarcord: l’ineguagliata epopea dei gemelli Renshaw

Tradizionalmente il 3 Gennaio si rivela una data priva di sussulti per gli appassionati di tennis. Dopo il succinto letargo invernale, infatti, l'agognato carrozzone tennistico profitta delle prime giornate dell'anno per sgranchirsi le ossa, a seguito dell'interludio vacanziero. Questa penuria di eventi ci regala il lusso di poterci affrancare dalle rutilanti incombenze agonistiche consentendoci, in occasione del 155esimo anniversario della loro nascita, di celebrare l'epopea di una delle più floride accoppiate familiari della storia del gioco: quella dei gemelli Renshaw.

Tradizionalmente il 3 gennaio si rivela una data priva di sussulti per gli appassionati di tennis. Dopo il succinto letargo invernale, infatti, l’agognato carrozzone tennistico profitta delle prime giornate dell’anno per sgranchirsi le ossa, a seguito dell’interludio vacanziero. Questa penuria di eventi ci regala il lusso di poterci affrancare dalle rutilanti incombenze agonistiche consentendoci, in occasione del 155esimo anniversario della loro nascita, di celebrare l’epopea di una delle più floride accoppiate familiari della storia del gioco: quella dei gemelli Renshaw.

William ed Ernest Renshaw nacquero il 3 Gennaio 1861 a Leamington, piccola cittadina sita nella contea del Warwickshire, terra che originò le gesta di un altro imprescindibile precursore, seppur in ambito letterario: l’amletico William Shakespeare.

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I precoci omozigoti non ci misero molto per egemonizzare il panorama tennistico dell’epoca, senza dubbio facilitati dalla sparuta concorrenza presente alla fine del XIX secolo. La dinastia Renshaw conseguì la gran parte delle proprie fortune tennistiche nel torneo di casa. Il torneo di Wimbledon, infatti, venne letteralmente monopolizzato dall’insaziabile cannibalismo dei gemelloni, capaci di aggiudicarsi, tra singolo e doppio, la bellezza di 12 Championships.

La storia del succitato dominio va necessariamente contestualizzata, al fine di scoraggiare ogni velleità comparativa rispetto ai giorni nostri. All’epoca, per la matrice originariamente elitaria del gioco, il tabellone del torneo londinese era composto da appena 22 partecipanti, alcuni dei quali privi dei più basilari rudimenti tennistici. Un’altra sostanziale differenza rispetto alla versione attuale dei Championships, tralasciando i ritmi infinitamente più compassati, era rappresentata dalla formula vigente all’epoca: quella del Challenge Round. Tale formula imponeva all’ultimo vincitore del torneo di difendere il titolo senza dover affrontare la canonica successione di turni, limitandosi ad aspettare in finale il proprio avversario. Ciò permise a William Renshaw, a seguito del suo primo successo nel 1881, di confermare il titolo per i cinque anni successivi disputando solo cinque partite, prima di veder interrotta la propria dominazione dallo scozzese Herbert Lawford. L’onta di quella sconfitta venne mondata dal fratello Ernest nell’edizione del 1888, grazie al successo sullo stesso Lawford. Per Ernest si trattò del primo ed unico titolo londinese. Nell’edizione del 1889, infatti, William pensò bene di ripristinare le corrette gerarchie familiari, riappropriandosi del trono sottrattogli grazie al netto successo in finale sul malcapitato Ernest, sigillato da un 6-0 finale dal retrogusto minatorio. Con quella affermazione William Renshaw portò a sette il numero di titoli conquistati a Wimbledon, record tuttora imbattuto, detenuto in coabitazione con Pete Sampras e Roger Federer.

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Come sempre però, quando si ripercorrono le gesta di fratelli così vittoriosi, è inevitabile imbattersi nella supremazia di uno a scapito dell’altro. Nel caso dei Renshaw il ruolo del mattatore spettava a William, dotato di un patrimonio genetico impareggiabile, irrobustito da una tracimante personalità. Fu proprio lui a brevettare dei colpi che all’epoca destarono sgomento ed incredulità nel reazionario microcosmo tennistico, maldisposto nei confronti di chi osava scardinarne l’imperante ortodossia tecnica. Ernest pativa particolarmente il confronto con il fratello più virtuoso, mortificato da un termine di paragone così ossessionante. Una dannazione che, paradossalmente,  trovava conforto solo quando poteva giocare in coppia con il fratello più titolato, quasi come una sorta di trattamento omeopatico volto a rigenerare Ernest mediante l’ingente somministrazione della principale fonte di frustrazioni.

Saltabeccando di paradosso in paradosso, è doveroso ascrivere ai Renshaw un altro riconoscimento postumo. Celebrati per la disarmante padronanza dei campi in erba, furono proprio loro ad espandere i confini del gioco fino alla brevettazione dei campi in terra battuta. La leggenda narra che i due fratelli, inizialmente desiderosi di creare un torneo sull’erba anche in Francia, dovettero fare i conti con l’ostilità climatica della terra transalpina, constringendoli a ricoprire i campi con della terra d’argilla, molto meno permeabile alle intemperie meteorologiche.

Due autentici precursori, dunque, i fratelli Renshaw. Così visionari e lungimiranti da scavare un solco di tale profondità da essere ancora presente e riconoscibile, in quella che ora ci sembra quasi un’altra disciplina rispetto ai primordi. A William ed Ernest Ranshaw va dunque tutta la nostra gratitudine, nella consapevolezza che, senza il loro essenziale contributo, tutti i feticisti della minuta sfera gialla non potrebbero godere così smodatamente del più esaltante diletto mai inventato.

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