Addio, cara Coppa Davis

Un perfetto lob del croato Marin Cilic scavalca l’affranto Lucas Pouille e la Croazia si aggiudica con pieno merito la sua seconda Coppa Davis battendo la Francia fuori casa, a Lille. Con questa edizione si spengono i riflettori e cala il sipario definitivamente sulla manifestazione che ha fatto la storia del tennis. Venne alla luce nel 1900 grazie ad una geniale intuizione dello studente americano Dwight Davis che con spirito squisitamente anglosassone lanciò una sfida ai rivali britannici per dimostrare che il tennis statunitense poteva battersi ad armi pari con quello dei creatori. Gli inglesi naturalmente accettarono… e persero.

Un’avventura lunga 119 anni che ha regalato indimenticabili momenti di sport nel corso di 107 edizioni. Scorrendo l’albo d’oro si apprezza la costante e tumultuosa crescita del tennis nel susseguirsi dei decenni. Dall’acerrimo dualismo Gran Bretagna / Stati Uniti si passa alle vittorie dell’esotica Australasia e in seguito l’egemonia anglofona viene spezzata dall’arrivo sulla scena della Francia dei Quattro Moschettieri (Cochet, Lacoste, Borotra, Brugnon). Dal dopoguerra fino agli anni Settanta domina l’Australia, poi irrompono paesi nuovi perché il tennis diventa uno sport globale: la Svezia, l’Italia, la Cecoslovacchia e la Germania. Negli anni Duemila la squadra di riferimento è l’invincibile armada spagnola e si conclude con le prime volte di nazioni che un tempo nemmeno potevano immaginare di poter alzare il trofeo: la Russia, la Svizzera, la Croazia, la Serbia e l’Argentina.

Tutti gli Immortali del tennis hanno indissolubilmente legato il loro nome alla Coppa Davis: dai fratelli Doherty a Tilden, dagli americani Kramer , Parker, Schroeder e Trabert agli australiani Laver, Rosewall, Hoad e Newcombe. Per arrivare a Borg e Mc Enroe, Lendl e Becker, Sampras e Agassi per concludere con Nadal, Federer, Djokovic e Murray.

Una competizione in cui il tennis da individuale diventa sport a squadre, dove gli egoismi personali vengono messi da parte e si gioca per l’onore e per la gloria. Le regole non scritte nel corso della stagione non valgono più: i rapporti di forza a volte si ribaltano e perfino il numero uno del mondo può trovarsi in seria difficoltà contro un anonimo tennista di retrovia particolarmente ispirato dallo spirito patriottico. Un evento in cui anche i meno affetti da nazionalismo si riscoprono un po’ patrioti e fanno un tifo spesso sano, ma che può anche trascendere nello sciovinismo più becero.

Amari e dolci ricordi legano la Coppa Davis e l’Italia. Dalle prime sfide impossibili dell’anteguerra, alla squadra di Pietrangeli che si fa valere ed è temuta da tutte le altre grandi nazionali. Poi c’è l’epoca d’oro degli anni Settanta con l’unica insalatiera mai conquistata dal nostro paese, in Cile, tra mille polemiche e le magliette rosse di Adriano Panatta e Paolo Bertolucci. Tra le gesta più recenti ci sono frammenti impagabili come l’eroe di Cagliari Paolino Cané che sconfigge Wilander, la trasferta sanguinosa a Maceiò in Brasile e Pescosolido assalito dai crampi, la finale del 1998 a Milano contro la Svezia con Gaudenzi che si rompe sul più bello. Ed infine le umilianti retrocessioni e la lenta risalita nel tennis che conta.

Dal 2019 tutto questo non ci sarà più, la manifestazione manterrà lo stesso nome, ma di fatto la sua magia sparirà per sempre, cancellata da una riforma che addolora i genuini amanti del tennis. Si è deciso di voltare pagina perché… “qualcosa andava fatto”, perché “i tempi cambiano”, perché “la formula non funziona più”, perché “i più forti non giocano”. Si è deciso così di mutare la Coppa Davis in un torneo a squadre artificiale, liofilizzato in una singola settimana e da disputarsi a fine stagione, a novembre inoltrato, con la quasi certezza che uno degli obiettivi principali, la partecipazione certa dei migliori, venga clamorosamente fallito.

E come se una elegante lampada che ha fatto bella mostra di sé in salotto dando lustro all’abitazione, venga all’improvviso presa, imballata e gettata nell’angolo più buio del solaio solo perché “è vecchia e fuori moda” magari sostituita da degli insipidi neon che sembrano luci di un corridoio d’ospedale.

Si abolirà il glorioso ed eroicamente estenuante tre su cinque per passare ad un più agevole e meno stancante due su tre. Fossi un po’ più maschilista mi verrebbe da dire “il tennis delle femmine”. I giovani spettatori (dal vivo o davanti lo schermo, non fa differenza) non riescono a mantenere la concentrazione troppo a lungo, quindi meglio accorciare, abbreviare, limitare, troncare tutto. Si umilia il mito per preconfezionare uno spettacolo basato sul mordi e fuggi offrendo piaceri effimeri che svaniscono in breve tempo e non lasciano traccia se non un retrogusto amaro.

Si poteva cercare di rimodellare la Coppa Davis in una competizione biennale o anche quadriennale per ridarle il lustro che merita facendone un punto di riferimento della stagione, un po’ come avviene quando ci sono le Olimpiadi. Si è scelta la strada più comoda e sicura; quella che non dà troppi pensieri perché lo sport moderno non punta certo a far assaporare il momento, ma a consumare l’evento.

Addio cara Coppa Davis, ci mancherai tanto. E’ stato un piacere conoscerti.

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