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Djokovic e la Coppa Davis

La Coppa Davis è da diversi anni in aperta crisi. Inutile girarci attorno. Per solito i migliori giocatori paiono occuparsene part-time, concentrati doverosamente sulla propria carriera di singolaristi. Lampante l’esempio di Roger Federer, che per 10 anni ha considerato la Davis solo quando serviva salvare la serie A della propria nazionale, lasciando per il resto dell’anno a Wawrinka ed ai rincalzi il compito di rappresentare i colori rossocrociati nel mondo, finché, folgorato sulla via del palmares ha deciso di fare sul serio e portare a casa il trofeo. Per altro senza troppi patemi.

Un impegno costante, annuale, al contrario, non è mai stato portato avanti dai Top10, eccenzion fatta per Thomas Berdych. Ma casi del genere, per l’appunto, rappresentano l’unicità che va a confermare la regola. D’altra parte, nazioni come la Spagna hanno potuto dominare la competizione negli ultimi 15 anni (5 vittorie e 2 finali per gli iberici) grazie al ricambio costante di giocatori di qualità in vetta alla classifica (dai vari Ferrero e Moya fino a Nadal, Ferrer, Verdasco e Almagro) che hanno frequentato la top10, a conferma che quando si dispone del meglio del ranking, si raccolgono frutti.

Con questa riflessione in mente Nole Djokovic ha deciso di spendere la sua influenza come dominatore attuale del tennis mondiale in favore della buona vecchia insalatiera. Djokovic in occasione della sua trionfale vittoria a Doha all’esordio del 2016 ha appreso con grande soddisfazione che il nuovo n. 1 dell’ITF, David Haggerty, abbia comunicato che sono in corso riflessioni per cercare una nuova forma di programmazione del calendario della Coppa Davis, in modo da favorire la partecipazione dei top players: “non è possibile chiedere ad un top player che ha finito uno Slam di andare a giocare subito dopo la Coppa Davis, facendo i conti con superfici e condizioni di gioco differenti. Apprendo con grande soddisfazione che almeno si sia preso in considerazione seria l’argomento della programmazione degli incontri“, ha commentato il serbo.

Di fatti ci sono diverse ipotesi sul tappeto. La più accreditata al momento propone di individuare una sede unica dove giocare, accorpando semifinali e finali della competizione in modo da accorciare i tempi della programmazione annuale. Da una parte questo snellirebbe il calendario, favorirebbe una più rilassata distribuzione anche dei tornei nel corso delle settimane, ma dall’altra andrebbe a snaturare la versione più recente della competizione, caratterizzata dalla scelta di sede e superficie di gioco da parte della nazione che gioca in casa. In pratica, un ritorno ai bei tempi che furono, con la finale europea a Wimbledon in attesa di andare a sfidare i vincitori che attendevano l’esito del torneo degli sfidanti (citofonare Von Kramm, che ebbe il piacere, da terraiolo, di non vedere mai una finale). Ma va ricordato che almeno fino agli anni ’70, questa competizione vedeva l’alternanza di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Australia sul podio, un refrain interrotto per la prima volta dall’Italia, che nel 1960 e nel 1961 con Nicola Pietrangeli a guidare la squadra raggiunse ben due finali.

In realtà la riflessione di Djokovic ha riguardato un altro aspetto, ben più pragmatico, ovvero gli incassi. Una buona ragione affinché i migliori giocatori tornino a frequentare le partite dell’insalatiera è proprio quella di garantire buoni incassi in termini di biglietti, diritti tv e sponsorizzazioni, che rappresentano un importante introito per le federazioni dei paesi partecipanti: “Ritengo che la soluzione con una sede unica per le semifinali e le finali non sia un problema per la gestione dei diritti, basterebbe mettersi d’accordo, e ripartire tra le squadre giunte a quel punto della competizione una equa ripartizione degli incassi“. Insomma, a tutto c’è rimedio.

A valle di tutta la vicenda sembra essere però scivolata un’altra questione: cosa è restato della fedeltà alla maglia nazionale, all’idea di rappresentanza del proprio paese? L’idea, a questo punto, di far diventare la Coppa Davis un appuntamento quadriennale o triennale, per dare enfasi e lustro, sul modello del calcio o delle Olimpiadi, potrebbe rappresentare un alleggerimento dell’impegno richiesto ai giocatori? O più semplicemente, ritornando ai vecchi mores, chiedere che i giocatori siano un po’ meno egoisti e timorosi, e giochino per i propri colori senza troppi patemi per la classifica, gli infortuni o, peggio, gli sponsor? Sono sempre loro, i migliori, che magari poi in dicembre frequentano la IPTL con una stagione sulle spalle ed un’altra alle porte?

 

Alberto Maiale

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