Il coaching servirebbe anche ai maschi?

Le NextGen concluse da qualche settimana hanno fatto affiorare in me qualche riflessione che potrebbe meritare di essere scritta (accade più o meno un paio di volte l’anno).

Io so a cosa starete pensando. “Il coaching esiste dal 2009 e questo si sveglia ora?”. Sì, mi sveglio ora. E non pensate che se andate in fondo troverete una incredibile rivelazione tipo che verrà introdotto anche nel circuito maschile dall’anno prossimo. Niente di tutto ciò. È solo un pezzo su quello che a mio avviso è uno degli aspetti più controversi del tennis, e le NextGen concluse da qualche settimana hanno fatto affiorare in me qualche riflessione che potrebbe meritare di essere scritta (accade più o meno un paio di volte l’anno). Quindi eccomi qui.

Come è noto, il coaching esiste solo per le donne in tutti i tornei dell’anno, esclusi gli Slam. Nel circuito maschile, invece, non esiste proprio. Con un’eccezione, però: se hai meno di ventuno anni (e sei uno dei migliori otto under 21 del mondo) allora puoi essere assistito dal’allenatore nei cambi campo. Farà ora una deduzione lineare, senza malizia o interpretazioni: secondo gli organizzatori dei tornei (Atp, Wta e ITF) le donzelle hanno sempre bisogno di essere coadiuvate dall’allenatore, qualsiasi età abbiano, i maschi invece solo finché compiono 22 anni.

Ora, questa situazione ha meritato evidentemente di essere analizzata da diversi psicologi. Tra le tante interviste che ho letto sull’argomento mi ha colpito di più quella ad Alessandro Mora, noto dottore in psicologia e affermato mental coach nel mondo tennistico. Le donne, spiega Mora, hanno un dialogo interno molto accentuato e tendono a leggere la mente dell’avversaria senza verificare se un’informazione sia vera o meno. Ciò quindi significherebbe che costoro fanno più fatica a capire e interpretare i momenti della partita di quanto non lo facciano i colleghi maschi, che invece secondo l’esperto in questione si limitano a voler tenere alto il livello di concentrazione durante la partita, senza pensare troppo al resto o a chi hanno di fronte. La donna, conclude Alessandro Mora, farebbe quindi più fatica ad entrare in uno stato emozionale ideale per permetterle di accedere alle proprie risorse.

Analizziamo quindi la questione: nell’ultima frase del precedente paragrafo vi è la spiegazione per la quale i coach sono in grado di far cambiare le sorti di una partita alla propria giocatrice (è successo più di una volta e più di due, vi dice qualcosa Kasatkina?). Ovvero, riescono a farla entrare nel mood giusto per vincere. Ecco il motivo per cui un bravo allenatore quando si avvicina alla panchina durante i cambi campo deve essere più psicologo che tecnico, perchè la donna a cui parla non vuole sentirsi dire come e dove tirare un dritto, perchè l’avrà già sentito cento mila volte. Piuttosto, vuole sentirsi dire come fare a vincere il prossimo punto, il prossimo game, il prossimo set e la partita.

NEW YORK, NY - SEPTEMBER 08:  Serena Williams of the United States argues with umpire Carlos Ramos during her Women's Singles finals match against Naomi Osaka of Japan on Day Thirteen of the 2018 US Open at the USTA Billie Jean King National Tennis Center on September 8, 2018 in the Flushing neighborhood of the Queens borough of New York City.  (Photo by Jaime Lawson/Getty Images for USTA)

 

Un uomo, invece, stando a quanto conosciamo fino ad ora, avrebbe una psicologia più “semplice”: non interpreta, non è così attento a quello che succede dall’altra parte della rete ma piuttosto è concentrato su ciò che accade al di qua. Siamo sicuri, però, sia davvero così? Sì, probabilmente sì, ma sarebbe importante far ricordare ai maschietti che, appunto, “esiste anche l’avversario”, come ha magistralmente spiegato il luminare Umberto Longoni nel suo libro Il tennis e l’arte di allenare la mente (ed. Le Comete, 2016).

In conclusione, è a mio avviso corretto scrivere che entrambi i sessi avrebbero bisogno di un supporto nel cambio campo, chi in un senso e chi nell’altro. Il perchè non sia ancora stato introdotto nel circuito Atp resta un mistero contemplabile da tutti gli appassionati, dato che mi rifiuto di pensare anche per un solo secondo che sia stato introdotto prima nel Wta perchè fungesse da sperimentazione, come invece dichiaratamente accade nelle NextGen.

3 comments
  1. Bel’articolo, sagace, spiritoso, leggero, ma allo stesso tempo “profondo”, che riflette con precisione sull’annosa vicenda del coaching. Bravo. Fermo restando che, come hai detto, maschi e femmine “pensano” e di conseguenza poi “agiscono” in modo diverso, anche partendo da presupposti iniziali analoghi ,andrebbe comunque applicato il sacrosanto principio dell’uguaglianza: coaching per tutti o per nessuno. Trattandosi il tennis di sport individuale uno dei pregi che un vero campione o campionessa deve necessariamente possedere è la lucidità di saper leggere la partita e quindi la tattica da adottare sia prima del match, sia durante lo stesso, in caso si debba cambiare il piano in corso d’opera. Quindi io sarei per l’abolizione del coaching. Purtroppo è una “moda” dei nostri tempi la tendenza di essere autoguidati e indotti nelle nostre scelte e lo sport non fa eccezione.

  2. Il coaching esiste fin dai tornei under, in genere è il papà a bordo campo che da indicazioni al figlio che sta giocando. Vero, o vale per tutti, o per nessuno, ma visto che comunque, segni, strizzate d’occhio e quant’altro vengono comunque fatti, tanto vale permettere di farlo…

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