La resa di Murray

Una conferenza stampa alla vigilia di un torneo del Gran Slam per fare il punto della situazione è la prassi per i grandi campioni, ancor più se si tratta dell’Australian Open, esordio per tutti i migliori del circuito che progettano la stagione, dichiarano obiettivi, temono imprevisti , si augurano successi. Ed ancor di più la chiacchierata si fa interessante se il protagonista è un tennista come lo scozzese Murray, reduce da diciotto mesi assai tribolati che dovrebbe rassicurare tutti sul suo attuale stato di salute, pronto a riscattare finalmente dai blocchi e a tornare più forte di prima, come si è soliti dire dopo un grave stop forzato, quasi più per auto convincersi che ciò sia realmente sempre possibile, che per concrete possibilità che ciò avverrà immancabilmente.

Tuttavia il lieto fine hollywoodiano, per fortuna, non si addice sistematicamente alla cruda realtà dello sport ed Andy Murray ha in serbo per tutti gli appassionati un “lugubre” annuncio. Con lo sguardo corrucciato, il groppo in gola, le lacrime ricacciate a fatica indietro e le parole che gli escono di bocca controvoglia e bofonchiate a mezza voce, dichiara al mondo intero la sua intenzione di finirla qui. Il dolore all’anca che si trascina da troppo tempo non lo abbandona, è impossibile recuperare una forma fisica decente ed un livello di gioco adeguato alla competizione e dignitoso per un ex numero uno al mondo.  Tenterà di giocare a Melbourne e proverà con tutte le forze a trascinare la sua carriera fino al nido di casa londinese in quel di Wimbledon, ma poi si ritirerà dal tennis definitivamente.

Un dramma sportivo che si consuma improvvisamente, non c’erano onestamente le avvisaglie di una tale drastica decisione anche se da quel fatidico incontro di quarti di finale perso contro Sam Querrey (Championships 2017), menomato da una evidente zoppia, la discesa agli inferi di Andy è stata rapida e senza possibilità di risalita.

Ripercorro brevemente le tappe del suo calvario e il susseguirsi di eventi ricchi di colpi di scena e di decisione bizzarre per lo più incomprensibili che denotano, letti col senno di poi, tutta la frustrazione e il travaglio psicologico del campione che vorrebbe ribellarsi al crudele destino e, indeciso sul da farsi, ingaggia una lotta impari contro un nemico invincibile: un bastardo infortunio non recuperabile che avrà purtroppo la meglio.

Andy Murray
Andy Murray

Murray, dunque, cede a Wimbledon contro Querrey nel 2017 pur lottando per cinque set in quello che sarà l’ultimo incontro di rilievo della sua carriera. La diagnosi è preoccupante: infortunio all’anca destra. Salta i Masters 1000 americani, ma non si dà per vinto e si iscrive agli US Open. Tuttavia si ritira a tabellone già compilato. Chiude la stagione e annuncia il suo ritorno per Brisbane 2018; vola in Australia, ma all’ultimo momento non partecipa al torneo ed abbastanza cervelloticamente decide di operarsi all’anca in fretta e furia a Melbourne.  L’operazione sembra aver avuto successo e il rientro è programmato per la stagione su erba. Al Queen’s viene battuto da Nick Kyrgios al primo turno, ma il match fa ben sperare per un completo recupero ed infatti al torneo successivo, a Eastbourne, annienta Wawrinka  riassaporando la gioia della vittoria. La doccia fredda arriva al turno successivo in cui deve cedere il passo al connazionale Edmund. Tutta questa preparazione per il grande appuntamento di Wimbledon è stata vana: l’anca ricomincia a fare le bizze e deve saltare i Championships. La mazzata è tremenda. Non si dà per vinto e riparte dall’America: tre incontri vinti al torneo di Washington gli fanno credere di essere tornato in condizione, ma lo sforzo è stato troppo intenso e deve abbandonare la competizione. Il timore che il suo fisico non regga più si fa sempre più concreto. Salta Toronto, si presenta a Cincinnati, ma perde subito da Pouille. A New York supera un turno e poi viene estromesso dal vecchio Verdasco, dopo un lungo match di oltre tre ore. Ha bisogno di riposo, chiude con questo incontro la sua annata, ma è fiducioso sul fatto di poter resettare la mente e il corpo e ripresentarsi in forma per la stagione 2019. Dopo di che il grande pubblico non sa più nulla di lui, buio fitto. Il sipario su Andy Murray si rialza solo l’11 gennaio, ma come sappiamo solo per chiudersi definitivamente.

Murray deve ancora compiere 32 anni. Sembrano tanti, ma nel tennis contemporaneo le carriere si allungano e si protraggono fin verso i quaranta. I progressi medici, i metodi innovativi di allenamento, le sagge tattiche di stop and go che permettono ai più “attempati” di selezionare gli eventi in cui essere maggiormente competitivi, forniscono quasi quel chimerico elisir di lunga vita (agonistica, ben inteso) che dà l’illusione dell’eternità sportiva, della competitività infinita, della possibilità di vittorie gloriose a ripetizione. Per Murray tutto ciò non è stato possibile, anche in questo è stato diverso e perdente nei confronti dei tre semidei che ha dovuto fronteggiare nel corso della carriera e che lui, uomo tra gli Immortali, è riuscito a sfidare e incredibilmente anche a sconfiggere in diverse occasioni.

Il suo colpo migliore è (era) il rovescio a due mani, con cui ribaltava anche scambi in cui stava soccombendo; il dritto  meno affidabile, la prima di servizio eccellente, la seconda molto meno. Mano delicata quando e se voleva, specie con il drop, ma non fatata anche perché poco avvezza a colpire al volo data l’allergia innata alla discesa a rete. Rimarranno nella memoria di tutti i suoi attacchi d’ira che a volte rasentavano lo psicodramma durante certi incontri ad alta tensione. Andy in campo esternava spesso le sue emozioni e frustrazioni in maniera tutt’altro che britannica e forse ciò era dovuto alla consapevolezza di doversi confrontare, nelle fasi calde dei grandi tornei, sempre con mostri che gli erano superiori per talento. Destino crudele che farebbe saltare i nervi al più freddo degli uomini. Tuttavia sapeva soffrire eroicamente e se perdeva, soccombeva con dignità dopo aver dato tutto. Era un combattente nato ed ogni stilla di energia che spandeva per il campo meritava l’ammirazione di tutti i presenti. Si dannava come un ossesso nel tentativo, quasi sempre vano, di rifiutare il suo ruolo di “vittima” e di “eterno sconfitto”.

Murray il brutto anatroccolo,  il Fab Four di scorta, l’attendista insopportabile, definito impietosamente ed ingiustamente “pallettaro” (categoria di tennisti ormai estinta da tempo), cede il passo e saluta tutti. Andy è sicuramente nato nell’epoca sbagliata e tuttavia è riuscito a togliersi delle soddisfazioni incredibili:  il sogno di far tornare l’Union Jack a primeggiare per ben due volte sui sacri prati verdi londinesi, la prima delle quali 77 anni dalla vittoria di Fred Perry; la vittoria su Novak Djokovic in una emozionante e durissima finale agli US Open 2012 i cui protagonisti sono stati tre: lui, Nole e il vento; la conquista di due prestigiosi ori olimpici. Sir Murray compie la sua più grande impresa nel 2016: con un incredibile seconda metà di stagione riesce a realizzare un mirabile e inaspettato sorpasso in vetta al mondo ai danni dell’acerrimo rivale serbo, e si potrebbe anche ipotizzare che quella rincorsa sovrumana e quel tentativo infine centrato hanno minato il suo fisico in modo irreversibile facendolo arrivare nudo alla meta. Chi può dirlo con certezza ?

Sta di fatto che Murray, semplicemente, ha dato prova di essere una persona che non si vergogna delle proprie debolezze. Quel “non ce la faccio più” che ha pronunciato con genuina sofferenza nella conferenza stampa più dura della sua vita commuove ed emoziona. Lo rende umano e finalmente uguale a noi. La venerazione per questi atleti meravigliosi per cui stravediamo non ci deve far dimenticare mai che sono esseri viventi come tutti noi, che non sono inaffondabili ed indistruttibili, che possono cedere in qualsiasi momento, anche di schianto, fisicamente, mentalmente o psicologicamente. Murray ha detto basta. Il dolore “ha vinto”, il tennista Murray “ha perso”, ma il signor Murray no di certo.  E’ sportivamente tragico, ma umanamente magnifico. Grazie di essere stato con noi in tutti questi anni, Andy.

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