Suburra, le storie di Instagram e una partita di Federer

Janko Tipsarevic si scaglia contro gli highlights e il modo sbagliato di vedere i match. E ha ragione: nell'ora e cinquantasette che scartiamo c'è la verità del tennis.

Viviamo nell’epoca del ritardo. Siamo in ritardo appena ci alziamo la mattina, andiamo a letto troppo tardi la sera perchè stiamo svegli per guardare Suburra su Netflix, facciamo tardi agli appuntamenti di lavoro perchè c’è traffico e tra l’altro perdiamo i semafori verdi perchè guardiamo le storie di Instagram mentre siamo in coda ad aspettare che si spenga il rosso. E quindi siamo ancora più in ritardo di prima.

Janko Tipaservic, però, non ci sta. Ok, dopo aver pensato «E a me?» lasciatemi spiegare. Il tennista serbo (per i meno tennisholic è quello che gioca con gli occhiali da ciclista) ha pubblicato un post sui social in cui si scaglia contro gli highlights delle partite, e, più in generale, contro i social network. In pratica, Janko scrive che i tennisti giovani si limitano a guardare quei due-tre minuti salienti di un match, in cui sono racchiusi i colpi più belli e spettacolari. Così, quando si trovano a giocare una partita, si arrabbiano se non riescono in un tweener, in un passante in lob o in una stop-volley in tuffo, poichè hanno una aspettativa sbagliata di come  l’incontro dovrebbe essere. Tipsarevic aggiunge anche che ai suoi tempi non c’erano tutte queste tecnologie, e un tennista doveva necessariamente guardare una partita dall’inizio alla fine per capire il suo prossimo avversario dal punto di vista del tennis e, soprattutto, da quello mentale. I social, promuovendo questi “hot shot”, non fanno altro che fomentare una visione distorta della realtà.

Ecco lo screenshot del post del tennista serbo, che potete trovare integralmente sui suoi profili.

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Per cercare di comprendere nel concreto ciò che Janko vuol farci capire, tornerei, se mi è concesso, al 2006. Anno in cui Fabio Cannavaro alzava la Coppa del Mondo, vero, ma in questo momento mi importa poco. M’interessa di più che mentre Fabio Caressa chiudeva le valigie per andare a Berlino, David Foster Wallace pubblicava sul «The new York Times Magazine» uno dei trattati più belli e riusciti della storia del giornalismo tennistico, intitolato Federer as a Religious Experience. Ora che ho osato nominare il Divino e che quindi ho la vostra attenzione, riporterei qui sotto non più di qualche riga di quel testo riletto mille volte ma, in fondo, mai abbastanza.

“C’è l’estrema cura che Roger Federer mette nell’appendere la giacca alla spalliera della sedia vuota a bordo campo, così, perchè non si sgualcisca (…). O l’immancabile cambio di racchetta ad un certo punto del secondo set, quella nuova sempre nella stessa protezione di plastica trasparente sigillata con lo scotch azzurro, che lui leva con cura facendola buttare dal raccattapalle.”

Foster Wallace sta scrivendo nel 2006, e si sta riferendo alla differenza tra tennis dal vivo e tennis in tv. A mio avviso, oggi i registi televisivi sono più attenti ai dettagli di prima, e quindi prestando attenzione all’universo-partita si riesce a far caso a tutti questi piccoli gesti che, davvero, spiegano la mentalità e l’attitudine del giocatore (in questo caso anche, in parte, i “Momenti Federer”, ma questa è un’altra storia).

Trasferendo la nostra riflessione su quell’altro, ovvero su Rafael Nadal, ci accorgiamo anche in questo caso di quanto sarebbe difficile capire Rafa solo dagli highlights: non vedremmo neanche una volta lui che col piede pulisce la linea di fondo dalla terra rossa, non ci accorgeremmo che si tocca il naso prima di servire e neanche che si sistema le mutande mentre si appropinqua alla linea di fondo per mettere in gioco la palla. Non capiremmo, insomma, nulla della sua personalità. Vedremmo solo dei semplici colpi. Che, chiariamo, son belli ed entusiasmanti finché vogliamo, soprattutto se gli interpreti sono quei due che ho citato, ma dentro la parola tennis c’è altro. Ed è giusto che l’amore per l’amato gioco consenta all’uomo di perdersi nel tempo che serve per capire cosa sia quell’”altro”. Che poi è quasi tutto.

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