Il tennis riparte con il solito Djokovic

Cincinnati 2020 ha dato l’idea, dopo il lungo stop forzato, di essere il primo torneo di una nuova stagione tennistica: l’hype per la ripresa delle attività ha raggiunto dimensioni gigantesche man mano che ci si avvicinava all’evento, con sensazioni paragonabili a quelle che si è soliti provare ogni anno tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio. Non solo però è il torneo ad essere diverso, non solo è addirittura il continente ad essere un altro ma più in generale è il contesto a presentarsi come una sorta di iperuranio tennistico: niente pubblico, silenzio assoluto, tetto chiuso, solo i tennisti a lottare con le proprie idee e l’avversario. In tutta questa diversità, vi è tuttavia un dato di fondo costante ed a quanto pare ineluttabile: Novak Djokovic da Belgrado resta sempre e costantemente l’uomo da battere nel suo essere infinitamente famelico, cannibale, chirurgico.

Risulta quasi inevitabile approcciare il tema della ripresa partendo da ciò che non è affatto mutato – più precisamente da chi non è affatto mutato. Potrà essere meno amato degli altri mostri sacri del tennis, a tratti persino fastidioso e antipatico (come spesso definito dai tifosi rivali), ma la padronanza mentale e tecnica che dimostra Djokovic ogni singola volta in campo è una vera e propria forma di bellezza tanto quanto un rovescio di Federer: una forma diversa, alternativa e più sfuggente al concetto di bellezza in senso stretto inteso, ma pur sempre bellezza. Di fronte ad ogni problema, specialmente nei momenti di difficoltà, Nole si trasforma in un “Iceman” che dirige a proprio piacimento l’andamento della partita a prescindere dall’avversario. Prima con Bautista Agut (molto bene lo spagnolo in settimana) e poi contro un fantastico Raonic, alla sua maniera ha depauperato l’avversario delle relative certezze per poi tramutarle in micidiali affondi con cui si è confermato il più forte del pianeta. I numeri parlano chiaro: nessuna sconfitta nel 2020 e primo tennista della storia a vincere due volte tutti i 1000 nonché primo (insieme a Nadal) per numero di 1000 vinti (35).

Milos Raonic

Il fattore che tuttavia ha attratto maggiormente l’attenzione è sicuramente quello ambientale. La solitudine in cui si ritrovano proiettati gli atleti stride con l’agonismo esplosivo delle grandi partite, senza tuttavia influire (almeno all’apparenza) sull’aggressività in campo. Con il tetto chiuso ed il pubblico assente, tuttavia, i “come on” ed i “vamos” risuonano più forti che mai, quasi come un grido di speranza verso un ritorno alla completa normalità che sembra ancora un’utopia. Anche il saluto finale nei pressi della rete, sostituito dal tocco tra le racchette, risulta emblematico della diversità immensa rispetto al passato. In linea di massima, però, le partite risultano gradevolissime, pur private della loro cornice pregiata rappresentata dal tifo del pubblico; bisognerà abituarsi a questo clima diverso ed incerto, causato anche dai diversi approcci dei tennisti di fronte al problema della pandemia che ne influisce le scelte di partecipazione. L’importante, però, era ripartire, pur con tutti i limiti del caso.

Un ultimo, ma non meno rilevante, tema di questi giorni riguarda la volontà di distaccamento dall’ATP di alcuni tennisti di vertice (Djokovic in primis ma anche Pospisil su tutti), a loro dire incapace di tutelare pienamente i diritti dei tennisti. Federer e Nadal, sulla scia di Andrea Gaudenzi, invocano un forte senso di unione considerato anche il momento estremamente delicato. Si tratta comunque di una vicenda che andrà avanti ancora per molto e che si trova solo all’inizio del suo percorso. Con vista sullo US Open.

Luca Sassone

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