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Attimi di Agassi

L’Arthur Ashe si commuove salutando per l’ultima volta il proprio più grande paladino, l’uomo capace di avvicinare al tennis una generazione di ribelli, ragazzi contrari al sistema che, dall’isolamento autoimposto, hanno trovato in lui un simile da seguire. Dal giorno in cui, nel 1986, fece il suo debutto nel tennis professionistico battendo al primo turno John Austin e perdendo da Mats Wilander a La Quinta, in California, Andre è diverso. Erano gli anni ottanta, impazzava la moda dei jeans e della refrattaria concezione delle autorità, così Agassi vestiva i panni dell’indomito, con trucco pesante e completi mai visti prima sul rettangolo di gioco. C’era, dietro quell’apparente disinvoltura, una profonda sofferenza, sprezzatura di diversa razza che comunque si affilia, per caratteristiche innegabili, alla corrente della naturalezza costruita. Il biondo dei capelli è tenuto fermo da una fascia ben stretta al capo, utile a scoprire gli occhi che seguono la palla con costanza asfissiante. Diventerà famosa, al mondo interessato ai piccoli scoop, la capacità del ragazzo di Las Vegas di seguire il gioco con lo sguardo, senza mai inclinare il collo. Sibila il servizio di Sampras quando nel 2000 i due si affrontano nella semifinale degli Australian Open. Il cemento è ammaccato dai colpi di Pete, che impressiona il pubblico per velocità di esecuzione e pesantezza dei fondamentali. Per Andre, nulla di tutto ciò sembra valere, immerso in una bolla all’interno della quale è la palla a seguire il ritmo dei battiti del cuore. Il respiro rivela una sincope nervosa, passetti veloci sfregano il terreno glauco, scatti frenetici accompagnano un uomo perennemente preda dell’ansia. Il colpo di inizio gioco scagliato da Sampras non ha ancora oltrepassato la rete, quando Agassi ha già preparato il rovescio. Semplice, pare, un simile gesto, frutto di un riflesso allenato col tempo rispondendo per anni ad una macchina demoniaca inventata da un padre dittatoriale al fine di trasformare il figlio nel numero uno del mondo. C’è qualcosa, però, che non può essere insegnato. Senza forza, particolare aggressività o foga brutale e primitiva scagliata sul mezzo attraverso il quale è possibile il gioco, la risposta di Andre prende velocità. Il cronometro conta dilatati centesimi di secondo, il campo da tennis è visto sotto una potente lente di ingrandimento che vede nel tappeto verdeggiante i fili sottilissimi di una maglia intricata. La palla accarezza il nastro, e quando Sampras ancora non ha potuto avvicinarsi ad una rete trattata come amante, il colpo di Agassi trafigge il suo schema predefinito. Boato di un platea che, incantata, ammira un gesto di simile fattura, movimento coordinato e perfetto, irreplicabile per tale splendore. Così fu negli anni, mentre i capelli cadevano inesorabili al suolo ed il look mutava seguendo una moda solitaria, dritti e rovesci sottratti al tempo fendevano gli arazzi dei bellissimi giocatori d’attacco. 

Nessuno, mai, interpretò un simile gioco. Nessuno, mai, lo interpreterà di nuovo. 

L’Arthur Ashe è in apnea quando Benjamin Becker scaglia l’ace che segna la cesura con il passato. Le lacrime scorrono sul viso di Agassi, sgorgate ancor prima di stringere la mano all’incolpevole avversario. La testa sotto un asciugamano che lo protegge dal destino, il microfono stretto con forza come mezzo attraverso il quale segnare la storia. “Il tabellone dice che ho perso, ma ciò che non racconta è tutto quello che ho trovato nel corso di questi venti anni”. Andre ringrazia, soffocato dall’emozione, il pubblico che con tale calore gli dedica la più intensa standing ovation mai vista su un campo da tennis. Lo sport, nel frattempo, scrive la parola fine ad una storia. 

La storia di un uomo imperfetto quanto irreplicabile, il Kid di Las Vegas che tutti, una volta almeno, hanno amato. 

Nicola Corradi

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