Buon compleanno, immenso Pistol Pete!

Siamo agli Australian Open del 1995. Pete Sampras ha ventiquattro anni e sta lottando in un durissimo quarto di finale contro Jim Courier. Sampras ha recuperato due set di svantaggio e ora è avanti nel quinto, con il punteggio che recita 6-7 6-7 6-3 6-4 1-0; nel bel mezzo della battaglia, una voce del pubblico risuona nell’intera Rod Laver Arena, così chiara da essere udibile anche in televisione. “Do it, do it for your coach!”, grida l’anonimo tifoso a ‘Pistol Pete’, che non riesce a trattenere il pianto e a mascherare i suoi sentimenti. Tra il sudore e le lacrime, l’imperscrutabile Pete ripensa al suo storico amico e allenatore Tim Gullikson, che il giorno prima era stramazzato a terra per un malore durante la quotidiana sessione di allenamenti ed era dovuto ritornare in gran fretta in America per dei test clinici. Circa un mese prima, infatti gli era stato diagnosticato un tumore al cervello, che se lo sarebbe portato via un anno più tardi. Pete Sampras non è mai stato incline alle emozioni; ma in quel match, nel cuore della battaglia, aveva mostrato – nudo – il suo cuore di uomo lasciando i panni di quelli del campione. Avrebbe vinto il match e si sarebbe fino alla finale del torneo aussie, battuto solo da un ottimo Andre Agassi in quattro set. Successivamente Pete più tardi dichiarò che non aveva sentito quella frase e che “su questo episodio si è costruito un mito”.

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Peter Sampras nasce a Potomac, una tranquilla cittadina del Maryland percorsa dall’omonimo fiume; è il terzo di quattro figli di Sam e Georgia Sampras, entrambi di origine ellenica: la madre era di Sparta, il padre era figlio di un immigrato greco e di una ebrea. E’ una famiglia povera, giunta in America in cerca di fortuna e integrazione sociale: lì sarebbe nato un futuro campione, che assume fin da subito in sé i tratti del Predestinato. Tanto per rimanere nella leggenda, da bambino trova una racchetta impolverata nella cantina di casa e inizia a palleggiare contro il muro. A sette anni trasferisce in California, a Palos Verdes. Viene scoperto da un grande talent scout dilettante, il dottor Pete Fischer, pediatra di Los Angeles, che sarà suo coach fino al 1989: è lui il primo a intuire le potenzialità del bambino e di mostrargli i match dei grandi campioni, a partire da Rod Laver, che diverrà il suo idolo di sempre. Cosa più importante, forgia il gioco di Pete trasformandolo in un giocatore di puro attacco, servizio micidiale e volley a rete, e a sedici anni cambia il suo rovescio, da due a una mano. In breve tempo il ragazzino diventa uno dei più promettenti giovani americani, vince tutto: a undici anni ha pure la gioia di poter palleggiare contro Laver. Fischer in seguito verrà accusato di pedofilia nei confronti dei giovani allievi: durante il processo Sampras lo difese, ricorda Clerici, “in modo onesto e coraggioso, scagionandolo, per quatto lo riguardava direttamente”. E fu sempre quello il suo modo di porsi nelle conferenze stampa anche al seguito delle più dure sconfitte, pacato ma diretto.

Nel 1990 Pete Sampras diventa professionista e vince il suo primo torneo ATP, l’Us Pro Indoor di Philadelfia, battendo in finale l’allora top-ten Andres Gomez. Poco tempo più tardi, a settembre, Pete si aggiudica il suo primo Slam, gli Us Open: dopo aver battuto tra gli altri Ivan Lendl e John McEnroe, in finale straccia in tre set il ventunenne connazionale Andre Agassi. Quello tra ‘Pistol Pete’ e il kid di Las Vegas era stata la seconda sfida (la prima era avvenuta l’anno prima, agli Internazionali d’Italia, vinto facilmente da Agassi 6-2 6-1) di una rivalità che sarebbe diventata tra le più grandi della storia: 34 incontri totali in dodici anni, 5 finali del Grande Slam – di cui ben quattro vinte da Peter – e circa il doppio nei Master Series. L’ultimo match, epilogo perfetto di una lunga epopea ciclica, si è disputato di nuovo in patria, agli Us Open 2002, vinti da Sampras in quattro set poco prima di annunciare il ritiro. Due caratteri agli antipodi ma ugualmente forti, quelli del solare kid di Las Vegas e il più granitico spartano Pete, una stima ma di certo non una simpatia reciproca e qualche screzio che hanno proiettato ancora di più questa rivalità tra titani nel mito. In merito a ciò c’è un curioso episodio che vale la pena di essere raccontato: nel 2010 Pete e Andre partecipavano a un match di esibizione a scopo benefico chiamato “Hit for Haiti” a Indian Wells assieme a Federer e Nadal. Agassi a un certo punto aveva ironizzato sulla presunta avarizia di Sampras, fingendo di frugarsi le tasche e urlando divertito “I have no money!”. Questa battuta era legata a un aneddoto presente nell’autobiografia di Agassi, dove aveva raccontato che il rivale aveva dato un solo misero dollaro a un posteggiatore in un parcheggio. Sampras, stizzito, si era vendicato scagliandogli contro un servizio a oltre 200 km all’ora.

I risultati di Pete Sampras sono storia nota: in carriera ha vinto 64 tornei ATP, tra cui 5 Master e 14 prove del Grande Slam consistenti in 7 Wimbledon, 5 US Open e 2 Australian Open. Il suo record fu per anni imbattuto, superato solo in anni recenti da Roger Federer ed eguagliato quest’anno da Rafa Nadal. L’unico Slam che gli è mancato è il Roland Garros non è mai riuscito a superare la semifinale, anche se sulla terra se l’è cavata bene, prevalendo tre tornei tra cui gli Internazionali d’Italia; soffriva sulla distanza al meglio dei cinque set, dove finiva per arrendersi ai maratoneti del rosso come Wilander o Bruguera, che spingevano dal fondo e prendevano tutto, fino a che Sampras, impaziente, andava fuori giri. Ben diverso era il Sampras di Wimbledon e di Flushing Meadows, dove sapeva mostrare i fuochi d’artificio con il servizio e con l’implacabile dritto e rialzarsi anche negli ultimi anni di crisi, riuscendo a ritrovare l’esplosività. Diventò n.1 del mondo il 12 aprile 1993: in tutto ci rimase 286 settimane; ci rimase per l’ultima volta da settembre a novembre 2000, dopo aver vinto il suo ultimo Wimbledon in finale contro Pat Rafter, prima di venire superato da Marat Safin.

Giocatore di talento puro, fu notato nel 1987 da Gianni Clerici. Lo Scriba si trovava alla tribuna stampa di Flushing Meadows, sotto il tetto del Lance Armstrong assieme al grande giornalista yankee Bud Collins, che preso dall’emozione esortò l’amico a dirigersi subito sul Campo 16. “Su quel lontano campetto, alla presenza di pochi intimi – ricorda Gianni – si battevano alla morte due giovanissimi, uno moretto, che presi per latino americano, l’altro cinese”. Erano Pete Sampras e Micheal Chang. E mentre Collins era convinto che sarebbe stato Michelino Chang il campione del decennio successivo, l’attenzione di Clerici si concentrò su quel ragazzone dallo sguardo duro e le sopracciglia folte il quale – pur non avendo la precocità del cinese – sarebbe diventato per anni il vero Number One.

Il mattatore degli anni ’90, spesso impenetrabile in campo e un’espressione che raramente lasciava trapelare gli stati emotivi, incredibilmente è stato preso per un tennista un po’ fragile psicologicamente, a volte senza abbastanza carisma per uccidere i match più sofferti, spesso incostante e un po’ svogliato. A ciò si aggiunge l’indole depressa da eroe greco al crepuscolo. Pete ha infatti dovuto convivere con una malattia ereditaria e incurabile, l’anemia mediterranea, un malessere che fa sentirsi scioccati, deboli, svogliati e tristi. Un carattere cupo, introverso e così europeo, differente dall’american way of life dei sorrisi smaglianti e dei riflettori, così ben rappresentata dal rivale Agassi, extension biondi e un atteggiamento da rockstar maledetta. Così il suo tennis e il suo comportamento in campo, paziente ma esplosivo, incantando il pubblico con il suo servizio divino, le volée e quell’acrobatico smash con salto, con cui scagliava la pallina aggrappandosi come a un invisibile canestro. Il melanconico Pete ha realizzato il suo sogno americano, vincendo la sua storia di riscatto, brillando per molti anni e poi uscendo senza rimorsi dopo l’ultimo grande risultato, ma tutto sommato senza strepito. E, come accade nelle favole made in USA, Pete si è sposato e vive felicemente con l’attrice e ex miss Usa Brigitte Wilson, con la quale ha avuto tre bambini, Christian Charles e Ryan Nikolaos. Dopo tanti anni di vittorie e sofferenza, l’eroe spartano, il volto segnato dal tempo ma ancora con lo stesso sguardo di quand’era bambino, è approdato stabilmente nel porto, mollando la nave verso la deriva. Ora può godersi il meritato riposo al di fuori dell’epopea e godersi gli attimi sereni della vita tranquilla nel quadro idilliaco della famiglia felice. Oggi il grande Pete compie 44 anni: auguri!

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