Se qualcuno vi avesse detto che quel ragazzino spagnolo dalla postura un po’ goffa che nei primissimi anni 2000 iniziò a lasciar le sue prime tracce sui campi del circuito ATP, giocando un tennis a tratti scomposto, energico e nerboruto, sarebbe stato protagonista di una gloriosa carriera, costellata da 27 titoli, un terzo posto del ranking mondiale, una finale slam persa solo da Nadal nel giardino di casa del maiorchino, il Roland Garros, ci avreste creduto? Noi no, e nemmeno voi, su, siate onesti.
Eppure oggi David Ferrer vanta una palmares da far invidia a gran parte dei tennisti in attività: ventisette titoli ATP, di cui un Master 1000, quello di Parigi Bercy, risalente al 2012, una finale e quattro semifinali slam. Un campione di sportività, un esempio per i giovani: di certo non un talento cristallino alla Gasquet, ma piuttosto un giocatore concreto, in grado di costruire i suoi successi su una solidissima base, un mix di sudore, abnegazione, fatica, allenamento e poi ancora sudore, e ancora fatica. David Ferrer non è uno di quei giocatori tutto genio e sregolatezza che incantano il pubblico con tweener e rovesci con salto, non è un maestrante dal guanto bianco alla Federer, non è un big server alla Isner, non è uno showman alla Monfils, non è un affascinante ed aitante bellimbusto alla Feliciano Lopez. David Ferrer è un giocatore normale, come ce ne sono stati stanti, con una sola differenza: una dedizione ed una passione senza precedenti, una maniacale applicazione che gli ha permesso di migliorare giorno per giorno un tennis fatto di solidissimi fondamentali, di pochi vincenti e ancora meno errori gratuiti.
La classe operaia in paradiso, la più classica delle storie, il trionfo marxista della lotta di classe contro la borghesia dei talentuosi giocatori che non hanno nemmeno bisogno di allenarsi. David Ferrer è un atleta straordinario, un giocatore che ha saputo conquistarsi il cuore dei fan di tutto il mondo a suon di vittorie, 715 su 1065 matches totali giocati, che ha avuto solo la sfortuna di trovarsi in un’epoca di grandi campioni, di essere oscurato in patria da una figura moderatamente ingombrante, quella del connazionale Rafael Nadal, un muro contro il quale Ferrer ha dovuto scontrarsi tante, troppe volte nella sua carriera; Ferrer infatti raramente perde contro giocatori più deboli di lui, ma altrettanto raramente vince contro quelli più avanti in classifica; una sorta di complesso di inferiorità, quasi come se David fosse consapevole del fatto che gli Dei del tennis non sono stati con lui tanto generosi quanto lo sono stati con quei campioni là davanti, coi vari Federer, Nadal, Djokovic. E allora il cammino di Ferru, così lo chiamano gli addetti ai lavori, è segnato dalle tante sconfitte in finale, molte delle quale concretizzatesi per mano dell’amico/nemico Nadal: sconfitto in finale a Miami, Roma, Montecarlo, Cincinnati, Shangai, Parigi, Barcellona, sconfitto in finale al Roland Garros, Ferrer ha più volte mancato l’appuntamento con la storia, ma ha saputo comunque guadagnarsi un posto fra i grandi.
Costanza, solidità mentale e fisica, etica del lavoro, grinta, cattiveria agonistica, resistenza e resilienza: queste sono le caratteristiche che hanno reso grande David Ferrer; Ferru non molla mai, lotta su ogni punto, colpisce ogni pallina come se fosse l’ultima della sua vita, gioca ogni match come se fosse una finale slam, approccia ogni avversario come se fosse un campione affermato; questa è la ricetta del successo di David.
Eppure quest’anno Ferru, 35 candeline spente ad Aprile, chiuderà la sua stagione fuori dalla top 30, per la prima volta dal 2004, anno in cui vi ci entrò stabilmente, per poi restarci per 13 lunghissimi anni. Il successo nell’ATP 250 di Bastad, primo titolo dopo quasi due anni, non è stato difatti sufficiente a riscattare un anno complessivamente ben lontano dai livelli a cui Ferru ci aveva abituati; se non consideriamo il motto d’orgoglio del campione offeso, l’acuto del Master 1000 di Cincinnati, durante il quale David è tornato ad esprimere un tennis di alto livello che gli ha permesso di raggiungere la finale (sconfiggendo, fra gli altri, Thiem e Carreno Busta), il 2017 è stato difatti l’ulteriore riconferma del viale del tramonto oramai intrapreso dal Valenciano, il canto del cigno, o meglio del brutto anatroccolo.
Onore ad un grande sportivo che ha dimostrato innanzitutto di essere un grande uomo, un esempio di umiltà e dedizione che si è guadagnato il rispetto di tifosi, colleghi ed addetti ai lavori, con quel suo sorriso semplice e con quel rovescio bimane tirato con la schiena un po’ curva ed accompagnato da una smorfia degna del cubismo di Picasso, con quell’uscita dal servizio anomala e esteticamente imperfetta, con la sua fascia da samurai ed i suoi completi Lotto. L’ordinario che diventa straordinario, un elogio al lavoro ed alla dedizione, perché se la pratica rende perfetti, Ferru, con la pratica, con la lotta e con il sudore ha reso perfetta la sua imperfezione.