La leggenda vuole che Olga Lendlova, ex tennista professionista diventata maestra, andasse tutti i giorni in campo insieme al figlio di tre anni e che, per evitare un’eventuale smarrimento, fosse solita legarlo a un paletto della rete. «Ubbidienza» e «disciplina», sono le prime parole che quel bambino, Ivan Lendl, associa al tennis. Prigioniero del tennis e della sua predestinazione, Ivan ha intrapreso il suo cammino mantenendosi coerente con e nelle proprie ossessioni: vincere e diventare il migliore tennista del mondo. Non si è mai permesso di sognare, nella sua vita c’è sempre stato posto solo per il duro lavoro, unico complice capace di sostenerlo affinché potesse raggiungere una schiera di obiettivi, sempre più numerosi, sempre più elevati.
Ivan Lendl è nato a Ostrava, il 7 marzo del 1960. Taciturno, metodico, perseverante. Quando non c’è più bisogno di legarlo al paletto della rete, mamma Olga lo piazza sulla riga di fondo campo e da lì, fosse per lui, non si schioderebbe mai. La scalata all’Olimpo ha inizio nel 1978 attraverso un repressivo dominio nelle categorie Juniores: dal Bonfiglio al Roland Garros fino a Wimbledon. Se le semifinali a Aix-en-Provence e al Torneo Godò consentono al diciottenne Ivan di chiudere l’annata come numero 74 del ranking ATP; nel 1979 agguanta la prima finale, a Bruxelles, superato da Balazs Taroczy. Gli ottavi al Roland Garros, dove ottiene lo scalpo di Arthur Ashe, e una semifinale ai Canadian Open, dove viene nettamente redarguito da Bjorn Borg, issano il ceco nella top 20.
«Da bambino giocavo sempre contro il muro, ma non mi divertivo. Perché contro il muro nessuno può vincere». Una delle rare confidenze rilasciate da Ivan Lendl è destinata a divenire metafora: nella sua carriera ci sarà, forse un po’ ci deve essere, sempre un nuovo muro da abbattere, sempre una nuova barriera da scavalcare. Nel 1980 il ceco stringe in pugno i primi successi: da Houston a Montreal, da Barcellona a Basilea, da Tokyo a Hong Kong per arrivare a Taipei; o meglio al Master dove avviene uno degli episodi più controversi della sua carriera quando, dopo aver superato agevolmente Guillermo Vilas e Harold Solomon gioca platealmente un match al di sotto dei suoi standard contro Jimmy Connors, in modo da evitare lo scontro con Bjorn Borg, in semifinale. «Pollo» e «codardo» lo definisce Jimbo, che non riesce a digerire né lo sgarbo del ceco né l’Orso Svedese in semifinale, il quale lo batte per poi liquidare anche Ivan in finale.
Lendl però non si scompone, rimane concentrato sulla meta, sposa la causa del perfezionismo più esasperato. Se il servizio inizia a fare sempre più male, il diritto diviene di giorno in giorno più penetrante, più solido, più devastante. Partito a gennaio come n.6 del ranking, nell’arco del 1981 raggiunge 15 finali su 21 tornei disputati, intascandosi 10 titoli oltre alla prima finale in una prova del Grande Slam, al Roland Garros, dove si piega a Bjorn Borg, seppure in cinque set. Per quanto sul sintetico del Madison Square Garden Ivan riesca a far la voce grossa sia nel 1981 e che nel 1982; stagioni che chiude come n.2 e n.3 del ranking ATP, i due Master non placano la sua fame di vittorie, anzi la accrescono.
Il 28 febbraio 1983, Ivan Lendl diviene il sesto giocatore della storia a diventare n.1 del mondo. Un primo gradino che l’allora ventitreenne di Ostrava mantiene per undici settimane e che si riprenderà per un altro mesetto sul tramonto di una stagione che lo avrebbe visto riporre in bacheca sei titoli, ma anche cedere a Mats Wilander in finale all’Australian Open e, per il secondo anno consecutivo, a Jimmy Connors nell’ultimo atto degli US Open. Finché venne il 10 giugno 1984. Sul Philippe Chatrier Ivan disputa la quinta finale Slam in carriera e, così come nelle precedenti quattro, pure questa è ad un passo dal risolversi in niente. Quand’ecco che, sul 3-6 2-6 1-3 in favore di John McEnroe i numi del tennis si schierarono tutti dalla parte di quel ceco che non sorride mai e che non riesce proprio a farsi amare dal pubblico. E da quel giorno diventa Ivan il terribile.
Nel 1984 Ivan bissa la semifinale a Wimbledon dell’anno prima e disputa la terza finale consecutiva nello Slam newyorkese, nonché la quinta al Master. Se nel 1985 gli svedesi Stefan Edberg e Mats Wilander gli procurano un dolore rispettivamente nella semifinale dell’Autralian Open e nella finale del Roland Garros; il trionfo all’US Open, dove spazza via John McEnroe, ed al Master, dove frena Boris Becker lo incoronano Re del circuito. Una leadership che Ivan Lendl mantiene fino al 9 settembre 1988. Stagioni durante le quali viene eletto come nemico pubblico, in cui deve sopportare di tutto e di più, in primis il poco lungimirante pubblico degli Internazionali d’Italia nel 1988 che non solo gli preferisce il modesto Perez Roldan, ma lo fischia persino durante la premiazione. Anni magici dove, tanto nel 1986 quanto nel 1987, è sovrano al Roland Garros, all’US Open ed al Master. Mesi in cui il tennis per Ivan si trasforma in una religione a cui si dedica fino a sfiorare il fanatismo. Giorni in cui matura una nuova ossessione: vincere Wimbledon.
Così come anni prima si era buttato anima e corpo nell’allenamento personalizzato, così come aveva creduto nel regime dietetico preparatogli dal Dottor Haas e si era affidato alla giovane psicologa Akexis Castori, il ceco è persuaso che debba per forza esistere un modo che gli permetta di domare la sacra erba dell’All England Tennis and Croquet Club. Se la sconfitta subita per mano di Mats Wilander nella finale dell’US Open 1988 lo priva per venti settimane del trono, né gli acuti all’Australian Open nel biennio 1989-100′, né l’essere riuscito a riprendersi il sacro scranno fino al 12 agosto del 1990, distolgono Ivan Lendl dal suo nuovo chiodo fisso. Dopo due finali perse, alla quarta volta che si accascia in semifinale, Ivan compie una scelta drastica: rinunciare al Roland Garros per guadagnare quasi due mesi di allenamento in vista della stagione su erba. È il 1990: questa decisione finisce per estorcergli punti che, con il senno di poi, gli comprometteranno la leadership e; nonostante la vittoria al Queen’s, dove ha regolato prima John McEnroe poi Boris Becker, la sensazione di non essere riuscito comunque a trasformarsi un un giocatore da erba, gli procurano una tensione tale da farlo arrivare sgonfio in semifinale, dove si piega in tre set al cospetto dello specialista e nuovo n.1 Stefan Edberg. L’anno dopo finisce ancora peggio: menomato da una contrattura alla schiena, viene liquidato al terzo turno dal modesto David Wheaton.
Il riscatto si sarebbe avverato una ventina d’anni dopo, seppur per interposta persona, quando il 7 luglio del 2013 colui che è diventato il suo pupillo, Andy Murray, ha conquistato Wimbledon ponendo fine alla maledizione, lunga 77 anni, che non voleva un britannico campione nello Slam di casa. Difficile stabilire fino a che punto la vittoria del tennista di Dunblane abbia sanato le ferite rimediate (e auto-inflitte) dal ceco, il cui corpo martoriato dagli infortuni lo ha costretto al ritiro nel 1994; compromettendogli le ultime quattro stagioni ed impedendogli di uscire da quel girone infernale riservato ai campioni incapaci di incidere il proprio nome nell’albo d’oro di tutti gli Slam. Difficile sapere se i numeri, tanto cari ad Ivan, abbiano in parte guarito la spasmodica ambizione di un uomo che è stato n.1 del mondo per 270 settimane, ha vinto 94 tornei ATP, tra cui 8 prove del Grande Slam e 5 Master.
È bello pensare che un uomo così schiavo delle sue fisime, così esigente e concentrato su sé stesso, abbia visto, percepito nell’arte, un desiderio di fuga. Ivan Lendl: il tennista che ha razionalizzato il suo talento, rapito da un artista poliedrico, le cui opere sbocciano di suggestioni, di figure accarezzate da colori delicati, la cui bellezza è perfetta, conclusa: Alfons Mucha. È dolce credere che la passione di Ivan per l’artista moravo, sbocciata e coltivata proprio quando il suo robotico modo di affrontare il tennis e la vita avevano contribuito ad issarlo in cima al mondo, non sia l’ennesimo diritto vincente; uno di quei colpi implacabili figli sempre di un ragionamento che, rapportato in tal caso significherebbe un semplice investimento.
Ivan ha spiegato di aver cominciato a collezionare i manifesti di Mucha dopo aver conosciuto il figlio di Alfons, il giornalista e scrittore Jiri Mucha. A presentarli è l’allora capitano di Coppa Davis ceco, Jan Kukal, anche lui collezionista di Mucha. Chissà quali corde hanno vibrato dentro a Lendl. Fatto sta che Ametyst, Emerald, Princezna Hyacinta, Hudba, nonché la divina Sarah Bernhardt, sono entrate a far parte della sua straordinaria collezione che comprende oltre 150 tra i più importanti poster pubblicitari disegnati da Mucha.
Sognava uno Stato libero dagli Asburgo, Alfons Mucha ma, seppure la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico nel 1918 gli permise di respirare l’indipendenza, nel 1939 la Germania invase l’allora Cecoslovacchia e il grande artista poco prima di morire subì l’umiliazione del regime nazista. Ivan Lendl invece, l’autonomia dal regime comunista se l’è presa con l’esilio. Quanto alla prigionia dal tennis, per evadere ha impiegato molti anni ancora, finché è intervenuto in suo aiuto un ritiro ormai inevitabile. Pare che la parola “libertà” sia il solo termine che accomuna Ivan Lendl ad Alfons Mucha. Sarà che nessun tennista è mai stato così intrappolato nelle sue ossessioni e solo in campo quanto Ivan Lendl. Una solitudine che forse le visioni di Mucha gli rendono meno grave.