Jelena Ostapenko e l’importanza di sentirsi degni

"Alla fine della fiera, ha vinto Parigi la sola tra le due che nel profondo si sentiva degna di vincere il Roland Garros".

Anke Huber è nata verso la metà degli anni ’70 in una Germania divisa e in un mondo che ancora doveva scoprire la diffusione del cellulare. Un mondo che, tempo una decade, era propenso a scandalizzarsi al cospetto delle provocazioni studiate a tavolino da parte di una pop star di origini abruzzesi, ma forse ancor di più per la conturbante magrezza di Kate Moss gettata nelle case via cavo insieme a Obsession, by Kelvin Klein. C’è poi da dire che Anke giocava a tennis e, quando da bambina accendeva la TV, vedeva gente come Chris Evert e Martina Navratilova trionfare nelle prove del Grande Slam. Non solo, avrebbe vissuto sulla propria pelle una connazionale destinata addirittura a realizzarlo il Grande Slam (e tanto altro), per poi assistere alla devastante ascesa di una quasi coetanea serba e sorbirsi una bimbetta elvetica pronta a riscrivere la maggior parte dei record di precocità. Per una Anke Huber ragazzina vincere uno Slam doveva certamente apparire se non un miraggio, una meta alquanto ardua.

Simona Halep è invece nata in Romania nel 1991 e seppure la cortina di ferro era stata tagliata da una manciata d’anni, i crimini perpetuati da Nicolae Ceaușescu gravavano ancora nei racconti di chi il regime l’aveva vissuto. Se nel gennaio 2007 dal palco del MacWorld Steve Jobs annunciava un dispositivo che avrebbe rivoluzionato il mondo della telefonia mobile, l’iPhone, i social network si sarebbero a poco, a poco impossessati della rete e delle vite di milioni di internauti. Un altro mondo quello di Simona, da sempre una promessa del tennis, ma che da giovincella ha visto comunque incidere sugli albi d’oro degli slam nomi come quelli delle sorelle Williams, di Jennifer Capriati, di Kim Clijsters, di Justine Henin, di Amelie Mauresmo. «Non è mica roba da ridere, vincere uno slam», avrà pensato. Nel 2004 Maria Sharapova afferrava Wimbledon a 17 anni, due mesi dopo Svetlana Kuznetsova si sarebbe imposta all’Us Open a 19. Difficile pensare che Sim0na li ritenesse traguardi “alla portata”. Più grande della Halep di un anno è Petra Kvitova, una provvista di una classe fuori quotazione, una che a 21 anni si mangiava l’erba di Church Road. Non è così fuori dal mondo immaginare che la mente di Simona Halep sia spesso sfiorata dal pensiero: «Cosa ho io, in comune queste?».

Simona Halep, finalista al Roland Garros 2014 e 2017
Simona Halep, finalista al Roland Garros 2014 e 2017

Jelena Ostapenko ha visto la luce a Riga, l’8 giugno del 1997. Data cara al tennis. Lo stesso giorno, 21 anni prima, in California, è nata Lindsay Davenport, 15 anni prima, in Belgio, è nata Kim Clijsters. Probabilmente Jelena non ha mai interpretato queste coincidenze come un segno. In realtà, avrebbe dovuto chiamarsi Aļona se solo la burocrazia avesse permesso alla madre di conservare quel qualcosa di sovietico andato però irrimediabilmente perduto (e sotto la maggior parte dei punti di vista, fortunatamente) con l’indipendenza riconquistata dalla Lettonia sull’Unione Sovietica. Insomma, Jelena, ma la madre continua a chiamarla Aļona, è cresciuta in un est accarezzato da un vento ormai avvezzo al cambiamento. Tutto il mondo è ormai diverso. Ed è cambiato a velocità stratosferica. 5 anni ai tempi di Anke Huber, equivalgono forse a venti giorni, adesso. Anche il tennis è cambiato. Le campionesse ci sono sempre, chi lo nega, si sono giusto un po’ appassite. Ed ecco che come d’incanto si fa spazio anche per molto altro. Francesca Schiavone va per la trentina quando vince il Roland Garros, lo stesso dicesi di Li Na l’anno che segue. All’Us Open nell’arco di cinque stagioni vincono Stosur e Pennetta. A Wimbledon 2013 si infiltra Marion Bartoli. Il 2016 è l’anno di Angelique Kerber che, come l’altrettanto bistrattata Caroline Wozniacki diventa n.1 del mondo, ma a differenza della danese vince persino due Slam. Il Master poi, finisce nella cassaforte di Dominika Cibulkova. Non ci sono più le rock star di una volta anche sotto un’altra sfera. Instagram, Twitter, Facebook, hanno contribuito a far cadere la magia. Ogni 5 minuti un aggiornamento, ogni giorno un Periscope, regolarmente qualche tweet. Sono tutte diventate persone normali, ordinarie, bisognose di rassicurare il mondo della loro esistenza. Hanno bisogno di una qualche forma di contatto, di una costante approvazione. Perché sul campo ormai non ci sono più certezze. E Aļona, pardon, Jelena, lo sente, lo sa. Perché è figlia di questo nuovo mondo. Perché sa, perché gli albi d’oro confermano, che ormai non esiste più niente di impossibile.

Si è sempre ritenuta una predestinata. Il rispetto nei confronti delle avversarie, più o meno blasonate, è sempre stato per Jelena Ostapenko un termine opinabile. Sapeva di poter puntare alla storia sin da quando vinse Wimbledon Juniores. È da sempre consapevole che avrebbe volato lassù, dove tirano i grandi venti, pure dopo aver perso nettamente la finale di Quebec City nel 2015 contro Annika Beck, pure dopo l’ultimo atto andato in fumo a Doha nel 2016 contro Carla Suarez Navarro, pure dopo il 6-3 6-1 incassato nella finale di Charleston, questo aprile, contro Darya Kasatkina. Eppure in Carolina del Sud il quadro si è arricchito di un dettaglio. Racimolare quattro games proprio contro una coetanea che aveva sempre battuto non le “andò giù” ed espresse tutto il suo sdegno, tutta la sua irriverente auto-consapevolezza durante la premiazione, quando non rivolse una sola parola di congratulazioni nei confronti della russa.

Jelena Ostapenko
Jelena Ostapenko

Questa è Jelena Ostapenko. Non ci sono “se”, “ma” o “forse”. Jelena, in questi frangenti quanto mai Aļona, vuole fare la partita fuori e dentro al campo. Si prende le vittorie, i fischi, gli applausi, le approvazioni, le critiche. Vuole essere lei l’artefice del proprio destino. Finora ci sta riuscendo. E in questo mondo (e circuito) quanto mai politicamente corretto, ci sta riuscendo in un modo al limite dello spiazzante. A Parigi non ha fatto niente per piacere. A Parigi ha semplicemente vinto. Di più. È andata a prendersi le vittorie. Ha fatto quello che il vertice e dintorni non sembra essere capace di fare. Quando Kristina Mladenovic ha timbrato il biglietto di ritorno a Garbine Muguruza ha fatto leva sulla mancanza di personalità messa sul campo dalla campionessa in carica, dopo di che la francese non ha retto la pressione contro la meno quotata Bacsinszky ed ha sua volta ha detto adieu ai sogni di gloria. Ai quarti di finale Simona Halep non ha rimontato Elina Svitolina da 3-6 1-5, ha semmai approfittato del crollo dell’ucraina, così come in semifinale ha beneficiato delle infinite mancanze tattico-emotive di Karolina Pliskova. Insomma, queste signorine non riescono a “prendersi” le vittorie. Forse non hanno la forza di farlo. per questo Simona Halep avrebbe vinto il Roland Garros solo se la lettone glielo avesse offerto su un piatto d’argento. Le ha invece consentito un assaggio, fino al 6-4 3-0. Poi la musica è cambiata e lo slam parigino è finito nelle tasche della ragazzina più sfrontata, più arrogante, più coraggiosa, più fresca, più “viva”. Non una lacrima. Non un attimo di commozione. Tutto sotto controllo.

Alla fine della fiera, ha vinto Parigi la sola tra le due che nel profondo si sentiva degna di vincere il Roland Garros. Perché Jelena Ostapenko non aveva nulla da perdere e non ha perso, vuoi perché le avversarie non erano in grado di vincere, vuoi perché gli dei del tennis questo auspicavano, questo desideravano. Perché Jelena Ostapenko è figlia di questi tempi dove l’impertinenza può risultare decisiva tanto quanto due fondamentali “in stato di grazia”. Perché entro certi limiti così era scritto. O meglio, così Aļona ha deciso di scrivere.

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