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Roger Federer: l’apoteosi di un campione

Era l’unico trofeo che mancava nella sua bacheca, ricca di 17 slam e 82 ATP. Roger Federer ha trascinato la Svizzera alla conquista della prima insalatiera d’argento della storia, nel solo modo che conosce: da numero uno.

di Lorenza Paolucci

Se una volta appesa la racchetta al chiodo, quel posto nel suo palmares fosse rimasto vuoto,  molto probabilmente la notte avrebbe dormito lo stesso, perchè 17 slam,  82 Atp e quattro gemellini, sono una ninna nanna più che sufficiente. Roger Federer però a 33 anni, di cui tredici vissuti sulla cresta dell’onda da predestinato, sa ancora commuoversi, come se ogni vittoria fosse un nuovo inizio, per un fuoriclasse che non smette mai di stupire. Eppure in ogni biografia, in ogni scritto, in ogni commento sul campione svizzero, risuonava sempre quella frase che appariva un po’ stonata per chi da sempre incarna il volto della perfezione: “non ha mai vinto la Coppa Davis“. Con la kermesse a squadre Roger ha sempre avuto, come tutti i giocatori di vertice, un rapporto di amore ed odio: spesso snobbata, per via delle stagioni sempre troppo tirate ma mai con l’intenzione di abbandonare il suo paese a se stesso. Nel 2011 giocò persino nell’abisso della B, dove l’anno precedente i rossocrociati scivolarono proprio a causa del suo forfait. Memorabile la usa immagine in tribuna mentre soffre come non mai seguendo il match decisivo tra il compagno di squadra Stan Wawrinka e l’australiano Hewitt. In cuor suo forse aveva sempre avuto quella certezza che l’occasione di portare a casa l’insalatiera d’argento sarebbe arrivata, ad accendere la realtà però ci ha pensato proprio il suo eterno secondo, Wawrinka, che lo ha convinto di come questa fosse l’annata giusta per provarci e che nell’economia della vittoria ha tutt’altro che meriti minori rispetto al collega più mediatico, più talentuoso, più quotato, più tutto. Perchè Federer, nonostante la palpabile timidezza e l’umiltà di mettersi alla pari dei compagni di  squadra, ha nel sangue l’indole del protagonista, tipico di chi è nato numero uno, colui che suo malgrado ruba la scena a tutti gli atri. Non si è parlato che di lui e della sua schiena dolorante, per tutti i giorni precedenti la sfida di Lille, un infortunio che sembrava destinato a spegnere in partenza le speranze elvetiche di vittoria. Re Roger invece ha stretto i denti, è sceso in campo, umiliato da un Monfils carico e perfetto, ridando così speranza ad una Francia “depressa” dopo lo svantaggio iniziale. Sembrava fosse l’inizio di un’inevitabile resa,  Il n.2 del mondo era apparso svuotato, poco mobile e contratto: una risposta a chi ne aveva messo in dubbio la professionalità dopo il ritiro dalle ATP Finals. Il suo orgoglio però ha accusato il colpo, non poteva essere proprio lui a tradire le aspettative di una nazione intera che da più di un decennio ha nel tennista di Basilea il suo atleta più rappresentativo e vincente. Per questo non si è tirato in dietro nel delicato match di doppio, tallone d’achille fino ad allora degli elevetici ed inevitabile ago della della bilancia. Ha portato a casa il vantaggio, mettendosi sulla racchetta il match decisivo, che il sorteggio ha voluto fosse proprio il suo. Una vittoria per i compagni, più che per se stesso l’ha definita: “ ho vinto abbastanza nella mia carriera, non avevo buchi da riempire“, e certo non perchè il batticuore provocato dalla Davis sia diverso da quello delle vittorie Slam: “è stata una delle emozioni più forti della mia carriera“. Una rincorsa quella tra Federer e la Davis durata 15 anni (l’esordio nel ’99 contro l’Italia, battè’ Davide Sanguinetti), si è fatta desiderare ma alla fine anche l’isalatiera è capitolata sotto il fascino dei suoi colpi. A voler essere pignoli al Divino mancherebbe un altro trofeo, l’oro olimpico, vinto in doppio ma non in singolare e non è detto che nonostante i 33 anni, non ci stia pensando. In ogni caso  potrà continuare a dormire sonni tranquilli: con la Davis in bacheca, la ninna nanna sarà ancora più dolce.

Lorenza Paolucci

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