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Djokovic ed un dubbioso ritorno

Il Djokovic post Wimbledon, ritrovatosi sulla bocca di tutti dopo l’annuncio del ritiro dalle competizioni lungo l’intero corso del 2017 comunicato in una diretta Facebook paurosamente simile al messaggio di finta felicità tipico degli spot apocalittici all’interno del quale sorridenti uomini dal bianco camice accolgono ignari cittadini sopravvissuti alla catastrofe, può essere descritto con un solo vocabolo, capace di riassumere i fiumi di parole inutilmente spesi alla ricerca di risposte introvabili: anacoreta.
Persona solitaria, appartata da tutti, che rifugge da qualsiasi contatto con i propri simili. Le apparizioni del serbo, infatti, sono da mesi ridotte al minimo. Chi ha avuto sue notizie? Chi ha potuto monitorare le precaria condizione del fisico un tempo indistruttibile? Nessuno, perché Novak Djokovic, abituato ad ascetiche sedute di allenamento svolte con l’aiuto di un magico assistente del quale, a distanza di un anno dall’ufficiale assunzione, si continua a non sapere quasi nulla, ha smesso, per sua stessa ammissione, di giocare a tennis.
Dubbi, dunque, dubbi a non finire su un ritorno che per molti, tecnici professionisti e non, si prospetta in maniera nettamente dicotomica.
Da una parte, infatti, la schiera di fedeli (solo Murray non ne ha una, lo ricordiamo), fermamente convinti della rinascita del proprio paladino, fiduciosi più per aver assistito, negli ultimi dieci mesi, al portentoso rientro di Federer e Nadal che per reali e concrete informazioni.
Possiamo dar loro ragione? No, perché, come già spiegato più volte, Nole non è né lo spagnolo nè lo svizzero. Il primo è troppo più abituato ad un eterno ritorno, talmente perfetto nel gestire al meglio le insidie che un infortunio si porta dietro da aver suscitato, in molti affabili uomini di sport, la continua voglia di etichettarlo simbioticamemte alla parola doping.
Discorso diverso, invece, tentando la comparazione con Roger Federer, che, essendo totale demiurgo nonché Vate intoccabile dall’apollineo talento, ha sfruttato la pausa traendone forza rigeneratrice come abile e arguta sanguisuga.
Per Djokovic, ahimè, non vale nessuno di questi discorsi, perché non è l’infortunio, come voi saprete meglio di me, il motivo per il quale va a spiegarsi l’assurda crisi di risultati del sadico dittatore serbo.
Quante volte si è parlato di calo di motivazioni, depressione, traumi dovuti alla complicata vita coniugale, smarrimento improvviso di una determinazione vorace. Il guru apotropaico, dal momento del suo arrivo, ha portato infortuni e fratture nell’apparentemente impenetrabile psiche del claudicante paziente. Ottimo lavoro.
Credo dunque nel ritorno in grande stile di Novak? No, ma nemmeno dò ragione a chi, e sono tanti, lo considerano già un ex ai livelli di Lendl. Djokovic è un tennista straordinario, capace di colpi e prodigiose prestazioni fisiche che mai, nella storia del tennis, ho visto replicare. Manca però qualcosa, rispetto ai due verso i quali ha sempre puntato: la fame.
È una frase scontata, lo so, ma tremendamente veritiera.

Non vedo in Djokovic un uomo capace di sbalordire tutti nel torneo del suo rientro (Australian Open 2018).
D’altronde, ad essere sinceri, dicevo lo stesso per Federer, ad inizio Gennaio, e tutti sappiamo cos’è accaduto.
Speranza, speranza sia.
Ma la gomma, se raffreddata, finisce per rompersi.

Nicola Corradi

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Nicola Corradi

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