Io ricordo bene le tante partite che nel biennio serbo (2015-2016) videro Rafa Nadal scontrarsi con un muro indistruttibile, un Novak Djokovic all’apice della propria carriera professionistica capace di capolavori fisici e di una costanza tale da risultare effettivamente, ai miei ed agli occhi di molti, imbattibile. Lo spagnolo, soffocato dal primo avversario che mai fosse riuscito ad anticipare le sue curve paraboliche, veniva costantemente attaccato, sopraffatto da un ritmo impossibile da reggere e schiacciato sui teloni da un lungolinea mortifero sempre piazzato in prossimità della linea di fondo. Decine di set vinti consecutivamente dal serbo, una supremazia totale sotto ogni punto di vista. Per questo alberga in me, ogni volta che i due si affrontano in partite di spessore, una certa diffidenza nei confronti di coloro i quali sentenziano con troppa sicurezza il risultato della sfida favorevole ai colori maiorchini, consapevole di quanto un tarlo come quello inserito da Nole nella mente di Nadal sia difficile da ignorare.
L’odierna semifinale si presentava carica di interesse da ambo i lati del campo. In primis perché una partita giocata da due tra i giocatori più forti della storia porta con sé il fascino di un passato glorioso, e la presunta rinascita di uno spirito combattivo nelle membra del nativo di Belgrado, dopo la vittoria convincente contro il cuor di leone Nishikori, lasciava presagire l’ipotesi di un remake del tempo che fu. Il primo set è spettacolo tecnico e atletico che quest’anno ha un solo paragone, la finale tra Federer e Del Potro disputata ad Indian Wells tre mesi fa. I due percuotono la palla con violenza belluina, coprono il campo conoscendolo a memoria e si sfidano reciprocamente sulla diagonale a loro congeniale, dove il dritto di Nadal incontra il rovescio di Djokovic schioccando in uno scoppio seguito dagli applausi dopo ogni cambio lungolinea. Sei game bastano a far comprendere la trama dell’incontro. Gli schemi tattici, rispetto agli anni precedenti, non sono cambiati, così come nemmeno Rafa, pur con i dovuti accorgimenti dovuti ad un’età che avanza, mentre è invece Novak a mostrare una lentezza nei movimenti che si palesa nel momento di impattare il colpo prediletto. In un gioco come il suo, possibile grazie all’allineamento perfetto di molteplici fattori strettamente collegati l’uno all’altro, anche un solo dettaglio fuori posto provoca la rottura del meccanismo così a lungo rodato. I piedi rimangono qualche centimetro più distanti dalla palla ed è così che il fondamentale circolare con il quale il rovescio parte da dietro la schiena ha inizio con pochi decimi di ritardo. Il polso sinistro tenta di correggere, ma la palla scorre e l’attimo è passato.
Quello stesso rovescio, per migliaia di repliche finito vincente, esce a lato. “Out”, break Nadal. È tutta questione di un istante, che nella scontro all’ultimo sangue tra due bestie personificate in uomini, è colpevole di un’abissale differenza. Scambi intensi ed avvenenti fanno da sfondo a quello che, dopo oltre un anno di totale oblio, viene ad essere un Djokovic cresciuto esponenzialmente di condizione in solo qualche settimana. Certo, la forma non è ancora ottimale e probabilmente mai riavremo il serbo del 2015, ma la ripresa, seppur parziale, di un tennista di tale calibro non può far altro, immagini come quelle di oggi lo dimostrano concretamente, che migliorare la salute del movimento. Nadal, vittorioso in due set, alza le braccia al cielo conquistando una nuova finale. Se Roma è la città dove nulla muore, Rafa Nadal e Novak Djokovic hanno trovato il palco perfetto per la cinquantunesima sfida di una rivalità senza precedenti. Applausi per loro.
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Roma merita di diventare una prova dello slam.
Come Parigi e anche meglio.