Non esiste Maria senza l’ombra del doping

Se questa notte Maria Sharapova avesse battuto Naomi Osaka, in uno dei primi turni dal maggior potere magnetico che il tabellone femminile portasse in dote, avrei fatto una smorfia di stupore. Non tanto per le capacità della russa che, non spetta a me ricordarlo, l’hanno portata numero uno del mondo vincendo cinque titoli Slam, quanto più per la depotenziata controfigura alla quale negli ultimi undici mesi, dopo i quindici di stop forzato, stiamo assistendo.
Senza mezzi termini, i risultati della Sharapova lasciano da tempo a desiderare, e se per le prime uscite (che rimangono le migliori) risultava facile attaccarsi a giustificazioni di vario genere, ora la situazione non lascia più dubbi. 
Al rientro dalla squalifica derivata dall’uso improprio del Meldonium, Maria non è stata più la stessa. Ciò non implica, come a rigor di logica molti sentenziano senza timore, che la causa di questa sua condizione sia attribuibile al fatto che, da due anni a questa parte, la russa non usufruisca più della sostanza dopante divenuta grazie a lei così famosa.
I colpi non sono cambiati, ed il dritto inside-out colpito dal centro spostandosi verso l’angolo sinistro fa ancora la differenza in molti scambi. La palese differenza sta però nella reattività, fiacca e tardiva, che si traduce non soltanto in una naturale lentezza negli spostamenti, ma anche e soprattutto in quella spinta piatta e millimetrica che ha sempre fatto, nel gioco della russa, da punto cardine, e che oggi, a causa di un ritardo piuttosto marcato nella preparazione dei colpi o in uscita dal servizio, produce errori e fondamentali leggeri. Questi, nel match di stanotte, hanno permesso ad una Osaka in costante crescita di liberare i potenti colpi, che giocati in condizioni di equilibrio ottimali hanno squarciato la psiche siberiana fendendo l’aria con un sibilo. Naomi, che tra le tante insipide padellatrici ha come pregio una simpatia non forzata, viene così ad essere una delle tante capaci di estromettere prematuramente da tabelloni di spessori la sofferente Maria. Le ipotesi teoriche che potrebbero spiegare questo lampante caldo di rendimento sarebbero tante. Una tra tutte, oltre all’alto numero di infortuni che sembrano volerla perseguitare, un errore nel calcolo della preparazione fisica che ha portato la Sharapova a disputare tornei di livello in periodo di carico.
Vacilla, però, questa teoria, perché i mesi di presunto carico sono ormai 11, numero che neppure il corpo allenato di un culturista saprebbe reggere, e lo staff della russa è troppo competente per cadere in errori di tale superficialità.
Pensandoci, si trattò della stessa materia quando il doping venne alla luce e, visti i risultati, le carenze del team in analisi verrebbero ad essere due. Difficile sia dunque questa, l’opzione più plausibile.
Parlare di doping a vanvera è il peccato più infame e calunniante di cui un uomo si possa macchiare. Nel caso di Maria, e lo scrivo a malincuore essendo lei una, tra le grandi, delle mie favorite, il dicotomico livello presentato prima e dopo l’accertamento di un illecito è però troppo lampante.
Sto quindi affermando, come un pazzo masochista, che i risultati raggiunti in carriera dalla Sharapova siano stati tutti frutto di un imbroglio, un losco sotterfugio capace di pervadere le membra della russa di linfa nuova e miracolosa? No.
Mi limito soltanto a descrivere i fatti, senza apporre alcun giudizio perché risulterebbe infondato, mostrando la palese realtà dei fatti.
Martina Navratilova crede nella rinascita di Sharapova, io no, pur augurandomi, con sincera schiettezza, di sbagliarmi.

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