Perché Federer (non) è il tennis

Ci risiamo. Dopo le dichiarazioni del presidente Binaghi, il plotone di sudditi del Re Sole ha ricominciato da dove, qualche settimana fa, si era fermato, prima di immergersi in una volontaria ibernazione lungo tutto il corso della stagione su terra rossa. I comuni discorsi, spesso addobbati da epiteti di poca raffinatezza, possono riassumersi in una semplice frase, rapida e precisa come i sublimi colpi del Vate intoccabile.
“Federer è il tennis e gli altri non sono nessuno”.
Un mantra di poche parole recitato di continuo con l’obiettivo di indottrinare l’intero universo, ormai mediaticamente succube dell’Imperatore.
Il bello è Lui, il buono è Lui, la perfezione è Lui. Tre assiomi inscalfibili che delineano l’unica e sacrosanta verità. Tutto ciò, però, decantato all’imperativo con tremenda insistenza, inizia a stancare.
Nessuno, infatti (forse solo Binaghi, colpito da fulminante egocentrismo), metterebbe mai in dubbio la grandezza del campione Federer, in quanto tale. L’esagerata divinizzazione, però, trasformatasi ormai in moda, risulta, ai miei occhi, inaccettabile. Assurda, a tratti folle, è infatti l’idea che un uomo possa racchiudere in sè l’essenza di uno sport. A detta di molti, osservatori disattenti o distratti, il Supremo è l’unico in grado di generare il bel giuoco, piuma bianca in un mondo triste e cupo in cui, gli altri, sono solo monotoni pallettari, sgraziati atleti che hanno la corsa e la forza bruta come unica e sola caratteristica.
Il tennis, scomposto in ogni suo dettaglio, è arte, poesia e letteratura.
Qualsiasi giocatore (a mio malgrado anche la Kerber, per dire) rappresenta un tassello necessario a formare questo sport, capace, a suo modo, di essere unico ed inimitabile. Come lo svizzero genera superbe emozioni, così lo spagnolo, il serbo, lo scozzese.
Federer esiste, sì, ma, esattamente come ogni altro, non può esistere da solo.

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