Con sempre più frequenza, quando si parla di tennis, si finisce con il discutere non di gioco, ma di atteggiamento. Fiumi di parole spesi per screditare il burbero Fognini, reo di un lancio di racchetta di troppo, lodare la signorilità di Nadal, attaccare la naturale sfrontatezza di Kyrgios o esaltare la spezzatura di Federer.
Tutti, discorrendo animatamente tra considerazioni di natura tecnica e malinconici riferimenti ad un passato glorioso, introducono nel loro parlare l’aspetto emotivo, comportamentale.
È notizia relativamente recente la rottura tra Alexander Zverev e Juan Carlos Ferrero, suo coach ufficiale dalla scorsa estate e già sollevato dall’incarico.
Si vocifera che tra i due, ultimamente, non corresse buon sangue, ed i presentimenti di molti sono stati ufficialmente confermati in quella che, nell’era del political correct, si palesa ai nostri occhi come scontro verbale dai toni insolitamente accessi.
Zverev, incline per natura a deliri di onnipotenza che con facilità ne distolgono lo sguardo dalla realtà, accusa lo spagnolo di avergli impartito un regime dittatoriale impossibile da sopportare. “In Spagna hanno il culto dell’allenatore, se lui ti dice di stare zitto tu devi tacere. Questa cosa non fa per me”. Nel caso specifico di cui tratto oggi, Ferrero, il tiranno, si sarebbe permesso di richiamare Zverev, invitandolo ad evitare di presentarsi agli allenamenti con il costante ritardo di mezz’ora.
Alexander lo accusa di maleducazione, sfrontatezza, megalomania.
Nel fare tutto ciò, pur non accorgendosene, esegue un perfetto ritratto di se stesso.
Se tanto è vero che i risultati, la scorsa stagione, sono arrivati, conditi da un miglioramento tecnico che, pur non eccelso, ha permesso all’innaturale dritto un movimento dotato di più fluidità, con l’apporto di una preparazione atletica specifica che, oltre ad aver apportato massa muscolare, gli ha consentito una grande evoluzione dal punto di vista della reattività, le pecche caratteriali di un giovane salito alla ribalta per risultati sì attesi, ma non con queste dinamiche, non hanno fatto altro che aumentarne l’innata boria.
Che l’indole di Zverev fosse quella del regnante lamentoso era già stato chiaro in diverse occasioni, quando, schiacciato dalla globale superiorità prima di Nadal e poi di Federer, rispettivamente a Montecarlo e ad Halle, non aveva fatto altro che vagare rassegnato per il campo, aggrappandosi a scuse di scadente caratura.
Fortissimo, senza ombra di dubbio, il più probabile e credibile autocrate del futuro, ma una personalità spocchiosa ed altezzosa, unita ad un gioco che non brilla certo per innovazione o genialità, mai lo renderanno, agli occhi del grande pubblico, un personaggio degno di nota.
Non è l’arroganza, il problema, a discapito di quanto molti sostengano.
Con l’arroganza, estrema e radicale, personaggi come Connors, McEnroe, un Agassi agli albori e lo stesso Kyrgios, per portare un esempio attuale, hanno coinvolto e catalizzato l’attenzioni di stormi di spettatori, intrigandoli con la costante ritorsione alle buone maniere sempre accompagnata da un carisma eccelso.
Zverev no.
Lui è il primo della classe, il lagnoso vincente che si compiace dei propri successi, soffrendo alle vittorie degli altri. Ama dar spettacolo della sua bravura e, quando le cose non vanno, dà la colpa all’esterno. Una volta il campo, la pressione della palla, le condizioni meteo, l’allenatore maleducato.
Non amo Zverev, non l’ho mai amato.
Solitamente preferisco parlare di tennis, e avrei dovuto analizzare la lezione senza possibilità di replica che Del Potro gli ha impartito nella semifinale di Acapulco, scovando e mettendo intelligentemente alla luce disastri tecnici che ne rendono goffo e sgraziato ogni colpo nei pressi della rete.
Potrei, ma non voglio.
Oggi parlo di carattere, comportamento e modo di essere.
Concedetemelo e commentate con me.
Ammonire oggi per non espellere domani.