Incroci, coincidenze e sliding doors. Jannik comincia oggi a scrivere qualche timida parola sui prati della terra promessa del tennis – dopo le qualificazioni mancate nel 2019, il covid nel 2020 e un primo turno infausto nel 2021– mentre il suo avversario è parte indelebile della storia dei Championships. No, il suo nome non figura nell’albo d’oro come quello di Sir Andy Murray – che ha eliminato contro pronostico – ma il big server americano Long John Isner, sfortunato semifinalista nel 2018 (sconfitto 26- 24 al quinto da Kevin Anderson) è il detentore di un record mai più battibile non solo per le proporzioni esorbitanti ma anche per i cambiamenti del regolamento: qui lui e Mahut, il 24 giugno 2010 – e anche il 25 e il 26, per la precisione – hanno dato vita alla partita più lunga della storia intera del tennis professionistico; il match è durato più di undici ore spalmate su tre giorni, ha visto un totale di ben 183 game e 216 ace e si è concluso con la vittoria dello statunitense con un punteggio che parte normale poi diventa una sequenza numerica misteriosa 6-4, 3-6, 6-7, 7-6, 70-68.
Dunque è a lui che Jannik chiede strada per raggiungere gli ottavi anche a Wimbledon, un traguardo inaspettato in questa stagione tormentata, fra risultati sotto le attese, problemi fisici di varia natura, cambio di allenatore e una certa nervosa inquietudine che lo segue come un’aura dall’inizio del 2022. Se non altro, questo travaglio gli è valso un inedito ruolo da underdog che gli ha permesso di procedere a fari spenti nel suo completo bianco.
Sulla prima di Isner non si gioca, sono tutti ace e dintorni. Non è una novità, tocca tenersi concentrati e aspettare le rare occasioni, soprattutto non complicarsi la vita al servizio.
Jannik risponde praticamente dalla tribuna, ma è rapido a riprendersi quei metri appena parte lo scambio; nel quinto gioco l’americano si salva dal 15/30 con il serve and volley ma la risposta perentoria di dritto incrociato vale un’altra palla break; questa volta Sinner punisce la discesa a rete del suo quasi anagramma e mette la testa avanti (4-3 e servizio). Si gira veloce e il rosso di San Candido non trema, anzi chiude con un game in cui mostra il campionario, dal servizio vincente, alla palla corta dopo aver sbattuto fuori Isner a suon di sportellate da fondo, alla semplice raccolta dei suoi errori di mira, fino alla veloce discesa a rete conclusiva (6-4).
Il secondo parziale vede un copione simile: Jannik è solido come una roccia da fondo campo e da lì costruisce i punti con intelligenza e idee chiare ma Long John prende via via maggiore sicurezza. La partita si anestetizza e in questo nuovo equilibrio è Sinner a rischiare di più, anche perché serve per secondo e se la cava davvero bene – buona percentuale di prime, quasi sempre al corpo – ma questa non è proprio la specialità della casa mentre Isner è il classico tipo che può andare avanti a fare buchi nel terreno per una decina di ore abbondanti o giù di lì. E così si arriva a giusto tiebreak, territorio di caccia per il big server. Il quinto punto è lo snodo decisivo perché Jannik prova a fare un passo avanti, risponde e avvia lo scambio per fare suo un minibreak da difendere con i denti (e con due ottime prime al corpo: 5-2). John si porta sul 5-4 tenendo anche un lungo scambio da fondo, poi si mangia una buona occasione su una seconda timida di Sinner (6-4). È set point, e Jannik lo coglie con la prima ed è avanti due set a zero.
Ora è Jannik a servire per primo, con un surplus di tranquillità che porta in dote giocate di fino, anche se le chance in risposta sono più rare della pioggia nel deserto. Sinner è paziente come un pescatore e nell’ottavo gioco si procura la palla break che mancava dal primo set; John annulla con una discesa a rete avventurosa ma Jannik ne crea un’altra perforando il serve and volley di Isner con un passantone di dritto. L’americano ripete l’operazione infruttifera e mette fuori la volée di rovescio: come d’incanto Jannik andrà a servire per il match. È un robusto servizio vincente a mettere la parola fine su questa partita altrettanto robusta. Ora che l’erba non è più un tabù e non c’è sfida migliore per rompere il tradizionale silenzio della domenica centrale di Wimbledon se non quella con il giovane più sfavillante del circuito, Carlitos Alcaraz, che sembra aver trovato un assetto piuttosto feroce anche su questa superficie.