E se Roberta Vinci fosse tedesca?

Se non sapeste che è tarantina e che vive a Palermo
E che non è bionda e giunonica come l'altra
Non pensereste che ha lo stesso rovescio di...

Un rovescio sublime, millimetrico, impareggiabile e sovrannaturale, tanto atipico ora, quanto straordinariamente diffuso in passato: questo l’ingrediente base di un nuovo, e si spera sempre avvincente, parallelismo tennistico, tra chi la storia l’ha fatta e chi, nel suo piccolo, cerca di entrarvi giorno dopo giorno.

Di chi stiamo parlando?

Senza dubbio di Roberta Vinci e Stefanie Graf (o se preferite, Steffi).

Il dramma fisico, tecnico e soprattutto mentale che ha caratterizzato il match inaugurale della finale di Fed Cup tra Robertina e la coriacea russa Alexandra Panova, ha dimostrato ancora una volta il valore di una giocatrice stile anni ’80 che, nonostante l’avanzare degli anni, sembra ringiovanirsi e migliorarsi nel tempo, facendosi largo a piè fermo tra la concorrenza di giocatrici sempre all’agguato, pronte a beffarla quando meno se lo aspetta. Il tennis è una giovinezza che si rinnova sempre e la tarantina ne è l’esempio lampante.

“Chiamata a rete rivela le sue umili origini” direbbe Rino Tommasi, e forse è proprio questo il vero tratto peculiare della Vinci, quello che tutt’ora le permette di imbrigliare partite che solo chi ha una consistente varietà tecnico/tattica ha il potere di fare. La compostezza stilistica, il furore aggressivo e la genialità sono doni unici e nel contempo rari, dei quali sono omaggiati solo i più fortunati, o forse i più meritevoli o ancora i più intraprendenti, come Roberta.

Dietro quest’immagine di pugliese D.O.C, grintosa, combattiva ed energica, si nasconde però una parte più fragile, difficilmente ravvisabile, ma con la quale lei convive e che, nei match di maggior caratura, la tradisce e la blocca, rendendola inerme proprio sul più bello. C’è chi però, dal nord della Germania, sarebbe disposta ad omaggiarla di tale dote… 1387864_10201003276832566_96465997_n

… Il 14 giugno del 1969 è una data che resterà incisa negli annali del tennis in eterno. Nasceva a Mannheim una ragazzina tedesca, bionda, snella, agile, dallo sguardo intenso, con un naso dantesco ma perfettamente in linea con il suo viso angelico. A scorgerne le qualità è suo padre Peter, venditore di assicurazioni che nel tempo libero si diletta come insegnante di tennis. Porta la figlia, di appena tre anni, su un campo da tennis, inizia ad iscriverla ai primi tornei a cinque anni, e ne scorge un’innata predisposizione, non solo nell’impatto anche nei movimenti, nella capacità di capire in anticipo dove l’avversaria manderà la pallina, quella naturalezza nel rientrare al centro del campo dopo aver colpito la pallina, quel qualcosa che non si insegna e che Steffi possiede di suo. Le sue 377 settimane da numero uno, i suoi 22 Slam, i suoi 107 tornei, il “Golden Slam”, la terribile parentesi “Gunther Parche”, che nell’Aprile 1993 riuscì a fermare quella Monica Seles che aveva ormai fatto crollare l’impero tedesco, sono solo alcuni dei tratti biografici di una tennista che, unica nella sua essenza, ci ha ricordato (e ci ricorda), con tutto il rispetto dovuto, la nostra Roberta Vinci e che, per anni, ha incarnato il prototipo della tennista perfetta, dotata di un diritto devastante e di una mobilità eccezionale.

Italia vs Germania, Brindisi vs Mannheim: due stili simili, ma allo stesso tempo complementari, due carriere fantastiche, seppur agli antipodi, sbocciate precocemente, paragonabili nella loro originalità tennistica ed ammirabili, seppur in diversa misura, per il contributo offerto a questa disciplina, non solo dal punto di vista tecnico ma anche umano, di chi combatte perché il tennis lo rende vivo, lo fa ardere di passione e lo isola dal mondo dei comuni mortali.

“Per me fu più grande di uno Slam, più speciale. Stare sul podio, sentire il tuo inno nazionale e avere la medaglia attorno al collo, vedere gli altri atleti che ti applaudono. È una sensazione differente, decisamente unica e assolutamente più speciale” (Steffi Graf, oro olimpico alle Olimpiadi di Seul, 1988)

Il loro legame con la Nazionale, l’attaccamento alla bandiera, lo spirito patriottico tanto vituperato oggi, le hanno rese modelli da seguire, non solo in campo, ma anche al di fuori, e Roberta ce ne ha dato una netta dimostrazione anteponendo la Fed Cup al Master “B” di Sofia, e privandosi di punti importanti, solo per l’onore di scendere in campo e rappresentare la propria Nazione. Chapeau!

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