I magnifici otto: lo strano caso di Novak Djokovic

Due titoli del Grand Slam (Australian Open e Roland Garros), la finale persa a New York contro Stan Wawrinka e quattro Master 1000 (Indian Wells, Miami, Madrid, Toronto): questo il bottino annuale di un tennista allo sbando. Novak Djokovic, in fondo, è sempre stato un abnorme contenitore di contraddizioni, e da questa commistione di contrasti nasce l'apparente ossimoro.

Due titoli del Grand Slam (Australian Open e Roland Garros), la finale persa a New York contro Stan Wawrinka e quattro Master 1000 (Indian Wells, Miami, Madrid, Toronto): questo il bottino annuale di un tennista allo sbando. Novak Djokovic, in fondo, è sempre stato un abnorme contenitore di contraddizioni, e da questa commistione di contrasti nasce l’apparente ossimoro. Vivere il periodo di maggior smarrimento e vulnerabilità nell’anno in cui si è raggiunto l’agognato Career Grand Slam, giunto a seguito del chimerico trionfo parigino. Trovarsi a dover cedere la prima posizione in concomitanza con la lungodenza di Roger Federer e l’insuperabile involuzione tennistica di Rafa Nadal. Forse è proprio questa, al di là di tutte le congetture possibili legate alla vita privata del serbo, la ragione della palpabile irrequietezza di Djoker.

Tennis: U.S. Open

Le ultime tracce di furia agonistica palesate da Nole, infatti, vanno ricercate nella finale dell’edizione 2015 di Flushing Meadows contro Roger Federer e, in misura minore, nel quarto di finale disputato contro Rafa Nadal agli Internazionali d’Italia della stagione in corso. La carriera del 29enne belgradese, se ci pensiamo bene, è sempre stata contrassegnata dall’imponente sprone impostogli dal duopolio ispanico-svizzero, un accelleratore motivazionale in grado di proiettarlo all’eternazione tennistica proprio nell’epoca d’oro del gioco. Trovatosi orfano degli antagonisti di una vita, Nole è entrato in una fase di spaesamento prolungato, compresso tra la vertigine del solitario dominio e l’incapacità di conseguire nuovi obiettivi con la medesima ferocia sportiva. Andy Murray non è mai stato un credibile spauracchio per il serbo, vista la schiacciante superiorità cerebrale evidenziatasi nel corso della loro decennale rivalità. Ora però lo scozzese sembra aver davvero bonificato i suoi demoni interiori, assurgendo così alla vetta del ranking ATP. Basterà questo smacco per ridestare nel serbo l’inesauribile voracità tennistica dei tempi migliori? A Londra l’ardua sentenza.

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