Flavia Pennetta, Luci a New York di quel pomeriggio…

Flavia in campo, racchetta in mano e spirito salentino, ha scritto a tutto braccio versi di spietata bellezza fino a rendere il sogno realtà e tangibile emozione. Nell'immensa New York, una grande italiana ha fatto la storia.

di Alessandro Mancinelli

Per la nostra generazione non c’è derby che tenga. Né quello capitolino, né quello milanese o torinese. Il calcio è a zero, ammutolito, rimpicciolito, assente. La vittoria di Flavia Pennetta, la finale tutta italiana agli Us Open, dimora dello sport mondiale, tempio sportivo dove gli americani si apprestavano ad incoronare una loro figlia, la Williams più giovane, regina, palcoscenico sul quale doveva andare in scena una pièce preconfezionata, quasi spoglia di emozioni e di sorprese, quella che avrebbe visto la numero uno al mondo completare il Grande Slam.

È questo che i ragazzi di oggi un domani ricorderanno. È questo l’apice dello sport italiano, la massima espressione di due donne ai vertici della vita sportiva e dell’amicizia. Per la nostra generazione sono loro le eroine, le donne, le atlete. Non vestono il numero dieci, non hanno scarpini e non sono uomini. È Flavia Pennetta l’esempio, la favola, il volto del talento misto ai denti stretti, intrecciato alle difficoltà e alla perseveranza, la lacrima che anche i ragazzi hanno pianto senza vergogna. È lei la campionessa. L’impresa è riuscita. L’impossibile è stato reso possibile e non me ne vorrà Roberto Vecchioni se, per l’occasione, la sua perfetta Luci a San Siro si inchina al tennis, a quel cielo brindisino e tarantino che ha minacciato, racchetta alla mano, il grigiore settembrino della Grande Mela.

“Luci a New York di quel pomeriggio
che c’è di strano siamo stati tutti là,
ricordi il gioco a Flushing Meadows?”

Niente nebbia, solo una pioggia battente alla fine della cerimonia. La stessa che piovve sullo Zaire nel 74′ dopo che Muhammad Alì mise al tappeto il favorito George Foreman. La stessa che scende sempre quando si fa la storia, come a lavare il passato. I miracoli, il paradiso, la Puglia, Brindisi e New York. Il tennis. Flavia Pennetta, dunque.

Alla sua ultima partita sul suolo americano, all’esordio in finale in quell’Us Open tanto amato, trasformato da lei e dalla Vinci in teatro italiano, reso grande quanto la Scala, quando ai fasti della sua storia ospitava gli esordi di Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini, la brindisina ha centrato la sua 435esima vittoria in carriera, la più importante, la più alta, totalizzante e leggendaria; contro la sua migliore amica, quella Roberta Vinci che sfidando la Williams il giorno prima l’aveva spezzata come un acuto della Callas avrebbe frantumato un bicchiere di vetro.

Per meritarsi l’accesso alla finalissima, in semifinale, dopo essersi disfatta ai quarti della Kvitova e poche ore prima che la Vinci si mettesse dietro l’America intera ed il suo muso ingrugnito (quel ghigno indurito del campione che non aspetta altro di vedersi servita la vittoria), Flavia in campo, racchetta in mano e spirito salentino, scriveva a tutto braccio versi di spietata bellezza, alla Emil Cioran per intenderci, dedicandoli alla numero due del mondo, quella Simona Halep presa a pallettate, crivellata di rovesci, vittima della storia, del destino, in ginocchio di fronte ad uno spettacolo del quale neanche Ionescu sarebbe riuscito a scriverne una riga.

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Il devastante polso di Flavia, che mai ha ceduto alle pressioni di un torneo iniziato con la leggerezza di chi sa di essere quasi a fine corsa, che non ha voluto credere ai richiami del ritiro maturato sul finire di agosto, non ha soltanto inciso senza tremare i colpi, gli scambi e i momenti che hanno scritto la storia del tennis italiano, insieme a Roberta Vinci, ma ha anche scoperto, in barba agli esperti di sogni e ai Freudiani, che essi possono essere fatti di rovesci, di dritti e stop volley, di smorzate, recuperi e pugni chiusi, di sguardi così unici da sembrare sguardi impauriti, umili, di imprese newyorchesi, fatti di una Puglia di altri tempi, che ancora resiste, che è semplice ed in festa, incredula. Di racchette lasciate cadere a terra quando le braccia vanno verso il cielo a sigillare il successo, ad imitare il trionfo, a chiudere una carriera in cima al mondo. La finale l’abbiamo vista tutti, cuore in mano ed occhi lucidi.

Non ha bisogno di ulteriori cronache, né di analisi. Se, però, ciò che diceva Shakespeare nella sua opera seicentesca, La Tempesta, e cioè che “siamo della stessa materia dei sogni” è vero, allora vuol proprio dire che tutti dentro di noi abbiamo e avremo sempre un pezzo della nuova campionessa degli Us Open.

Grazie Flavia, tu sei stata più realista di noi, hai chiesto, voluto ed ottenuto l’impossibile. Oltre il genio, poiché se è vero secondo Norman Mailer, indimenticato autore statunitense, che il genio non è nient’altro che equilibrio sul bordo dell’impossibile, Flavia è andata più avanti. In equilibrio, sì, ma sulla vetta dell’impossibile fino a rendere un sogno realtà ed emozione per milioni di appassionati e non. Perfetta. 

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